Appunti di viaggio: Salutando gli States con un messaggio (e un monito)

L'ultima tappa del viaggio americano a New York, la capitale delle capitali...

appunti di viaggio salutando gli states con un messaggio e un monito

Ma tutto a New York è nuovo anche il vecchio, anche per chi ci è stato dieci volte o ci è vissuto fino a qualche anno prima. È una città in perenne e instancabile trasformazione.

Napoli.  

L'ultima tappa del mio viaggio americano è stata la capitale delle capitali, la città dai mille volti e dalle mille opportunità, la modernità fatta agglomerato urbano, l'unità di misura della ricchezza e della crescita sociale, il paese dei balocchi e delle gang, la città sempre nuova, New York. Ci ero già stato in questo grande bacino di umanità varia e variabile, che ogni tanto tracima come un fiume in piena verso i suoi sobborghi, ora per voglia ora per necessità, tanto da raggiungere una moltitudine di svariate decine di milioni di unità.

Non a caso è una delle "città metropolitane" più popolose al mondo, che non sembra voler smettere di crescere. Lo testimoniano i nuovi quartieri, le nuove idee, i nuovi architetti, i nuovi percorsi, le nuove riqualificazioni e i nuovi arredi urbani. Uno per tutti quel "progetto di risviluppo su larga scala che risponde al nome di Hudson Yards, congiuntamente pianificato, finanziato e costruito dalla città di New York, lo stato di New York, e la Metropolitan Transportation Authority per incoraggiare lo sviluppo lungo il fiume Hudson a Manhattan". L'ho percorso felicemente a piedi per la fascinosa High Line - "il parco lineare di New York realizzato su una sezione in disuso della ferrovia sopraelevata chiamata West Side Line facente parte della più ampia New York Central Railroad" -  ammirando il nuovo visionario come il vecchio restaurato o rimodulato, non esclusi gli arditi palazzi di vetro che mostrano la vita al loro interno, fino a raggiungere uno degli affacci più suggestivi e romantici dell'intera metropoli. Ma tutto a New York è nuovo anche il vecchio, anche per chi ci è stato dieci volte o ci è vissuto fino a qualche anno prima. È una città in perenne e instancabile trasformazione.

Ne sono testimonianza i lavori notturni di ampliamento e trasformazione (o più propriamente abbellimento) dei "vecchi" grattacieli che circondano Times Square, il cuore palpitante della città dove ho trascorso i miei giorni newyorkesi, o il nuovo One World Trade Center, la Freedom Tower (la sua altezza in piedi è di 1776, non a caso come l'anno della Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti), l'attuale più alto punto di vista sulla città reso inattaccabile e indistruttibile per l'uomo dopo lo scempio dell'11 settembre del 2001. Per chi come me l'aveva vista prima del 2020, sembra poi che il terrore e la pausa vitale del covid-19 abbia spinto New York a ricominciare a correre, con una frenesia e una vitalità che stupiscono ogni giorno tutti, dai turisti ai suoi stessi abitanti. Nulla sembra essere da meno quanto a maestosità. Tutto si rinnova o si adegua, come in una gara a chi fa meglio. Gli spettacoli a Brodway, le cene a Soho o al Greenwich Village (al Grench come lo chiamano i newyorchesi) - anche Robert De Niro ha festeggiato proprio là i suoi 80 anni alla Locanda Verde - oppure alla sontuosa Steakhouse Wolfgang, dove abbiamo passato una serata memorabile, le nuove passeggiate al Central Park, i rinnovati giochi e gli originali pupazzi componibili da Fao Schwarz, la magia, la meditazione e lo stupore espositivo dell'American Museum of Natural Hystory, del Metropolitan Museum of art o del MoMA (Museum of Modern Art), dove il vecchio (da rimanere a bocca aperta) si continua a coniugare con un nuovo in un gioco di infaticabile e reciproca mutazione e di costante e impareggiabile bellezza. Riporto di seguito alcuni miei appunti sparsi (quasi enigmatici) presi girovagando nelle "antiche sale"  dell'ala sud del MoMA, in cui mi sono riconosciuto - lo confesso - di più che nelle "nuove" - "Le vibrazioni di Matisse, le mutazioni di Picasso, le dismorfopsie di Ghagall, le visioni di Klimt, le solitudini di Cézanne, le sontuosità di Van Gogh, le estraneazioni di Gauguin, le vertigini di Magritte, le scomposizioni di Dalì, le decapitazioni di De Chirico, le sovrapposizioni di Mirò, i corridoi di Klee. Poi le rughe di Pollock con le tenebre di Millares. La ferita di Fontana ancora sanguinava quando sono volato via con Klein." Rispetto a Boston è come se a New York non ci fosse spazio per la cogitazione e l'introspezione (eccetto che nelle affollate sale dei musei), tutto sembra partecipare a una incessante gara a migliorarsi, a volare più in alto, a rappresentarsi più sbalorditamente, a far crescere la fama e il denaro della comunità. Ma questo vertiginoso sviluppo ascensionale della vita sociale dell'intera metropoli non può non finire col pagare un prezzo. Lo si percepisce in quegli angoli di solitudine che si incontrano allontanandosi dai percorsi turistici, in quello skyline verticale in cui ci si può specchiare in altezza fino al punto in cui l'uomo non ricorda di essere un nano di fronte ai grandi bisogni della Terra, puntualmente disattesi proprio da questa tracotante volontà al profitto e alla modernizzazione. Nella New York di oggi aumentano quelli lasciati indietro - questo il covid-19 avrebbe dovuto insegnarlo molto bene a un sistema  sanitario che ha avuto un numero di morti inaccetabile per essere considerato il primo al mondo - per strada, negli ospedali, negli ospizi e nelle case comuni. Non basterà costruire un mondo migliore, sarà necessario anche renderlo tale. E come la città affacciata sull'Hudson è stata capace di trasformare aree suburbane, malfamate e abbandonate in quartieri belli e moderni, com'è stata in grado di passare da uno dei posti più invivibili al mondo negli anni '80 a uno dei luoghi col più basso tasso di omicidi degli Stati Uniti nei primi anni del nuovo millennio, come ha saputo trasformare una normale locanda come Stonewall Inn con il suo piccolo parco antistante in un simbolo di tolleranza per la comunità omosessuale del mondo intero, così sarebbe bello che tutto quel processo di rinnovamento e ripensamento di cui New York sembra essere capace come pochi altri spazi liberi nel mondo non fosse solo dedito al potere e al profitto ma declinasse di nuovo e sempre più verso l'intellualità, il ricordo e la partecipazione.

Rammento a tal proposito cosa dichiarò Robert Redford, attore e uomo straordinario, in una intervista di più di trent'anni fa: "Siamo ricchi di slogan e sventoliamo con piacere la bandiera, tiriamo in ballo le tradizioni d’America quando in realtà ne sappiamo proprio poco… Tutto è ora così mescolato, omogeneizzato". Mi piace pensare che ciò che quel popolo ha di straordinario, e che appare in tutta la sua grandezza proprio a New York, non diventi solo una simulazione di progresso, un tritacarne economico-finanziario senza più neanche la parvenza di una luce di umanità. Perché se è bellissimo quello che è scritto alla fine della breve presentazione della mostra da parte della direzione del MoMA che "chance is modern" (il cambiamento è moderno), sarà bene che ciò non valga solo per quel che appare, ma soprattutto (o esclusivamente) per quel che è, e che in definitiva è l'unica cosa che conta per la vita delle persone. Ma loro, sono sicuro, lo sanno già. Bye bye America!