Appunti di viaggio: il vento dei Caraibi tra magia, forza e maledizione

È il fascino e al tempo stesso la maledizione di questo posto magico.

appunti di viaggio il vento dei caraibi tra magia forza e maledizione

Un proverbio Zen recita: "rendi il tuo spirito simile al vento, che passa su tutte le cose senza attaccarsi a nessuna di esse".

Napoli.  

Il vento dei Caraibi è diverso da tutti quelli che avevo conosciuto finora. Una folgorazione me lo ha reso chiaro. Non aveva odore né peso. Accompagnava quelle che per lui erano solo insignificanti presenze (mia e di tutti) lì a Turk & Caicos, nei misteriosi e ancora (quasi) incontaminati Caraibi, per affermare tanto la sua preesistenza quanto la sua eternità. Sembrava mi aspettasse, ma senza interesse o passione. Uno zefiro appena sbocciato, da un antro o da un sogno non so, che nessuno poteva fermare o deviare - com'è normale che sia - solo subire. Dicono sia un vento di nord-est, ma (pare) solo nella stagione secca (non quella in cui ero là io, ahimè). In agosto sembra, infatti, che la sua provenienza sia incerta e mutevole, come le stelle cadenti subitanee o inutilmente attese di quel mese. Resta un vento giovane e acerbo, lieve anche quando è impetuoso, un vento immacolato. Non conosce strade, crocevia, friggitorie, angoli deserti, mani vuote, sudore e imprecazioni. Non è contaminato dagli abbracci, e nemmeno dai baci. Non appartiene alla terra. Non sa nulla degli uomini, o li ignora. Conosce solo le vaste praterie dell'acqua, da cui nasce e dove va misteriosamente a morire. Sussurra al mare quello che prevede e il mare ce lo mostra. Nessuno però lo capisce. Perché per vento e mare il brutto è come il bello, solo per noi è differente. Gli uomini dovrebbero imparare dall'alito di quei meravigliosi tramonti.

Un proverbio Zen recita: "rendi il tuo spirito simile al vento, che passa su tutte le cose senza attaccarsi a nessuna di esse". Mai proverbio fu più calzante per il vento dei Caraibi e per le sue genti.

Ho incontrato quella brezza instancabile e umida seduto nella conca infuocata di Grace Bay Beach - un manto bianco di sabbia e conchiglie e un unico infinito azzurro dalle mille tonalità -  e ancora ogni qualvolta ho girovagato nei suoi dintorni. Nessuno provi a spiegarsi l'imbuto attraverso cui i mesti richiami degli indigeni, le loro grida e le sanguinose battaglie che in quei luoghi remoti si sono combattute da lì si sono disperse per la Terra grazie a qual vento. Ed è (ancora) grazie a quel vento che i Caraibi riecheggiano ogni istante con un suono gutturale ed estraneo, capovolgono il nesso tra l'uomo e la natura, origliano le sue scialbe parole - per loro poco più che brusii - e le dimenticano, sembrando andare altrove. Tutto ciò che ovunque è endemico là diventa temporaneo, provvisorio, come il vento. È in virtù di quel vento che i Caraibi mutano di miglio in miglio, di ora in ora. Nessuno sa dove soffi, né per quanto, e dove riposi. Nessuno può prevedere se porterà pioggia o sole. Perchè reca con sé entrambi. Sempre. Come ho detto, è il mare il suo mentore e il suo profeta, è lui, il solo, a parlare prima dell'irreparabile. Quando smette di essere ispirazione e magia, il vento dei Caraibi dà forza alle vele, ai palloni aerostatici, alle ali spiegate di Icaro, alle mute verticali delle barriere coralline e alle assordanti ascensioni dei gabbiani. Ma agli uomini no, a lui dà fiacchezza e rassegnazione. È il fascino e al tempo stesso la maledizione dei Caraibi. Lascia, tanto a chi ci vive quanto a chi ci viene per breve tempo come me, un peso molle e vischioso, una contaminazione inapparente. Sarà l'America a due passi e la madre Inghilterra troppo lontana, ma lascia sempre un vuoto da colmare tra le genti dei Caraibi. Un'imperfezione da sottomettere. Una ferita da nascondere. L'antropologia del nulla contrapposta alla disarmonia del creato, finite entrambe nel soffio di un vento bramoso come un fuoco e muto come un servo.

Tutto è cominciato là, a Turks & Caicos, prima che altrove. Sarà per gli antichi naufragi delle navi negriere che proprio là avvennero o per l'indipendenza dalla Real Casa da sempre agognata e mai ottenuta, ma il rosario di isole - la parola caicos in arawako, la lingua caraibica ormai estinta, significa proprio questo - è la risposta di Dio al mondo disabitato che è stato e che oggi non è più. Donne e uomini salvati dalla schiavitù e dalla dispersione e ora resi custodi (direi quasi controvoglia) di una terra senza veri confini e senza tangibili approdi. Per questo oggi qui ne invoco l'integrità e la perfezione (che non vi ho trovato) e ne canto, a mio modo, l'incondizionata e indecifrabile bellezza.