Cosa ci viene veramente a mancare di chi gira l'angolo, di chi ci omette (suo malgrado) la vista, di chi evapora da un luogo definito in cui eravamo certi di trovarlo? Per quanto mi riguarda, la voce, innanzitutto, il suo tono, la cadenza, la gravità. E poi il suo fedele compagno, il respiro, che prima ci cingeva come in un dolce e lungo abbraccio. Quel misto di azoto, ossigeno e anidride carbonica quante volte ci ha guidato fino alla persona amata, come sassolini di Pollicino per ritrovare la strada del cuore?
Oggi percorro la vita con il pensiero greve e solenne di chi la scopre già piena di luci spente. È così, più avanti si va nel computo degli anni e più sono i battiti mancanti di amici e parenti. Ma non c'è da spaventarsi, ma da essere fieri di esserci e di avere ancora la possibilità di lasciare una traccia, un segnale.
G. K. Chesterton ha detto: "A un uomo deve bastare pensare che è un uomo, che è in piedi, che è sotto le stelle". Volenti o nolenti, a ognuno è dato il suo tempo. Oltre il quale però non c'è solo l'oblio. Almeno non subito. Parlo, infatti, di decenni, al più di un secolo (forse due generazioni), per quelli di noi che non restano nei libri di storia e che hanno ben seminato. Il resto sono solo vaghe reminiscenze, racconti intorno a fuochi che ormai nessuno accende più.
Lo spunto per queste riflessioni me lo ha dato una vecchia intervista del grande poeta e scrittore argentino del secolo scorso (per me il più grande), Jorge Luis Borges, che ho ritrovato per caso qualche giorno fa. La conversazione in oggetto si svolse tra il letterato e una giornalista della televisione francese alla fine degli anni '70 ed è stata recuperata dagli archivi del quotidiano Libération e resa pubblica dalla stessa prestigiosa testata parigina una decina di anni fa. A conclusione di quello straordinario dialogo Borges disse: "Ho paura di una sola cosa: l’eventualità di non morire. Il calcolo delle probabilità ci dice naturalmente che siamo destinati a morire. Ma potrebbe anche essere che nella nostra epoca sia nata una generazione di immortali. Noi quindi potremmo essere non so se dire degli eletti o dei dannati. In ogni caso, non vedo la mia morte come un avvenimento drammatico, piuttosto come una speranza. Come il personaggio di Stevenson, anch’io ho un tesoro nascosto, la morte. Se qui le cose non vanno troppo bene, andranno meglio altrove. O forse sarebbe anche meglio che altrove non ci fosse proprio nulla. Mi ritroverei annientato. Il che sarebbe perfetto." Qualcuno storcerà il naso per il credo rigorosamente laico, forse cinico, certamente nichilista del poeta, su questo argomento in particolare. Ma io vi invito, invece, a cogliere l'aspetto profondamente spirituale delle sue affermazioni. C'è lì una fede nel presente che dovrebbe spingere tutti noi a vivere la vita in totale pienezza (e rispetto degli altri, aggiungo), perché è solo qui e solo ora che (almeno materialmente) ci manifestiamo. Quello che seguirà potrà assumere i contorni e i colori che vogliamo, perfino quelli del buio, che pure temiamo (o agogniamo). Nulla potrà comunque privarci del "tempo raggiunto" e se "speranza" deve essere che sia festosa, se "annientamento" che sia inesorabile.
In un'altra intervista di qualche anno dopo Borges aggiungerá: "Io vorrei sopravvivere nelle mie opere, ma non, diciamo, come soggetto di un lemma in un’enciclopedia… Sono convinto che uno, quando scrive, ha la speranza che l’opera sopravviva. Ma, se può sopravvivere nell’anonimato, meglio; se può far parte del linguaggio o della tradizione, meglio ancora”. Tradotto in altri termini, la nostra voce - anche la più eccelsa - testimoni sé stessa saldamente confusa tra quelle altrui, fino a farne parte, come un tutt'uno di tonalità e note. E in quel crogiuolo, in quell'insieme inestinguibile, trovi la sua ragion d'essere. Esercitare il profitto personale (in tutte le sue declinazioni) o, peggio, il male, non restituirà al mondo che altri temporanei tornaconti e altre efferatezze senza un domani. Borges, inoltre, poteva desiderare di sparire e di essere dimenticato perché sapeva di lasciare un patrimonio culturale e morale perenne. Come lui, però, ognuno ha il suo bagaglio di pietre preziose da donare a chi segue, nessuno pensi di esserne privo. Ma c'è un'altra forma ancora di immortalità che Borges ci insegna, quella della guardar oltre la "linea di demarcazione" (o non vederla affatto), quella del carpe diem.
Nel meraviglioso "L'Aleph" scriveva: "Essere immortale è cosa da poco: tranne l’uomo, tutte le creature lo sono, giacché ignorano la morte; la cosa divina, terribile, incomprensibile, è sapersi immortali". Ciascuno impari a coltivare il suo "tesoro" nascosto", la sua via di fuga, per chi resta, senza tener conto dell'epilogo, affinchè il suo ricordo e i suoi insegnamenti siano sottratti all'immortalità (quella sì) della noncuranza. Le nostre vite siano un'opportunità per quelle future e non solo individuali, transeunti, terree omissioni. Del resto quello che agli altri mancherà di noi - ammesso che questo in qualche modo accada - è ciò a cui nessuno potrà porre rimedio, l'anello debole dell'umanità, la ragione stessa della nostra caducità: un solo uomo, una sola storia (breve) e la sua irripetibilità. Proviamo almeno a fare buon uso di questo solo pezzo di strada che abbiamo per trasformarlo nel bene fruttifero di tutti. Così non ci faremo sopraffare da ciò che "manca" - volto, espressioni, voce, massa, respiro, odore - ma vivremo con "ciò che resta", che sia alla luce del mondo o in fondo ai nostri cuori. Così entreremo di diritto a far parte del patrimonio (buono) dell'umanità, e anche Borges - per quanto paradossale possa sembrare dirlo - avrà avuto ragione (suo malgrado) di esistere.
*Neurologo, responsabile sezione Sanità Confindustria Benevento