Perché Napoli resta la fine del viaggio

Appunti di viaggio tra Napoli e la Spagna

perche napoli resta la fine del viaggio
Napoli.  

Alle 6.40 del venerdì santo sono partito da Napoli, volo diretto (l'unico) per Siviglia. Solita ressa, ognun per sé e Dio per tutti. Irrazionali i percorsi, come le file per raggiungere l'angusta scala che ci faceva attraversare la strada per l'accesso all'aeromobile - tubolari per l'ingresso diretto da queste parti per carità. Perfino la questione bagagli a mano, del tipo "chi tardi arriva male alloggia", in queste latitudini è sempre un inesorabile destino. Volavo verso la città andalusa per la terza volta. La prima per "attraversare le acque" e provare a salvarmi la vita. Ci riuscii. Anzi ci riuscì Siviglia, i suoi tramonti, i suoi aranceti declinanti verso il mare, i suoi minareti, le sue piazze danzanti (che fosse sivigliana o flamenco), le canzoni dei Triana, le sue chiese barocche, la sua fortezza arabesca. Ma più di tutto ci riuscirono alcuni suoi abitanti, il loro calore forte e rassicurante, amici degli amici, i loro bagordi senza umani limiti, le loro accoglienti dimore. Qualcuno si sarebbe dimostrato piu duraturo del previsto. La seconda per lavoro. Un ricordo fragile e confuso. Non più doloroso ma solitario. Angoli e vicoli di nuovo bui. L'anima ancora esclusa.

Questa volta era diverso, però. Ci andavo con la famiglia, a chiudere il cerchio da sempre aperto delle fughe in avanti e dei muti ritorni. Settantadue ore luminose e lievi, nel cuore sussiegoso e fervido della settimana santa della capitale andalusa. Un sistema-città si era mosso intorno a quell'evento religioso e a tutti noi, alle miriadi di processioni - pare siano ben 62 le congregazioni che le promuovono - che si sono succedute, intersecate e sovrapposte a ogni ora e in ogni angolo dello scacchiere cittadino, ai mastodontici afflussi di turisti e fedeli, ai parenti e agli amici di chi - giovane o vecchio - testimoniava il suo ruolo nel tempo dell'uomo senza fratellanza, continuando imperterrito a rispettare tradizioni, ricordi, storie e valori. Camminando come in parata, con passo fermo e cadenzato. Nessuno si era tirato indietro. Un afflato sociale senza pause o tentennamenti ci aveva travolto. Ma senza portarci via. Pur nella ressa più soffocante tutto era avvenuto con ordine. E quello che aveva lasciato era presto tornato dov'era e com'era. Un altro mondo, un'altra era geologica, un'altra cultura rispetto a chi come noi napoletani pure quel mondo lo aveva conosciuto, condiviso e appreso in tanti anni di governo borbonico. Ma forse non abbastanza. Se lì tutto è perfettamente ristrutturato, conservato e manutenuto, dalle strade, ai palazzi, alle botteghe, e da noi no. Niente è sembrato essere lasciato al caso (l'esatto opposto di quello che accade da sempre in terra partenopea e dintorni). Tutto è accaduto in piena sintonia tra attori e spettatori. Anche le evoluzioni tecnologiche - sconosciute a chi come me mancava da tanti anni - sono risultate armoniose con una realtà che alla fine - proprio in quei giorni assorti e sacrali - ci era invece apparsa immutabile nei secoli. Tapas e ristoranti poi sempre stracolmi, nel pieno rispetto della tradizione e spesso più economici (talora anche di gran lunga) rispetto ai nostri. Insomma, tutte rose e fiori in terra andalusa. Eppure mentre tornavo a casa qualcosa mi sembrava incompiuto. La brevità del soggiorno forse? La voglia (insoddisfatta) di capire di più, di essere più viaggiatore e meno turista? No. Aver compreso, piuttosto, che a tanta organizzazione, a tanto rigoroso valore dato al passato, a tanta qualità sociale e culturale mancava qualcosa che invece a Napoli ancora abbiamo. La definirei con Terenzio, l'humanitas: "sono un essere umano, non ritengo a me estraneo nulla di umano". Quella capacità unica e irripetibile di accogliere, ma anche di invadere l'accolto, fino a estenuarlo, fino a innamorarlo. La casualità asistolica di un colpo di fulmine - che ci riporta sempre all'attimo fatale - contro l'ordinaria compiacenza di un incontro, la certezza di un'amnesia che prima o poi arriverà sotto forma d'addio. La contaminazione dell'appartenersi, anche per un solo momento, avversa alla sobrietà del conoscersi, che non dura mai per sempre. A Napoli non si viene per guardare, ma per respirare atmosfere con gli occhi. Quasi non conta l'imperfetto - purtroppo pare inevitabile - che vedi ma come lo vedi, fino a trasfigurarlo. Perchè com'era scritto su una vetrina proprio di Siviglia, "il bello non sono gli occhi, ma gli sguardi". Qui non si viene per mangiare, ma per essere divorati da un'emozione culinaria. A Napoli non conta il luogo, ma come diventi parte di esso. Invece nella bellissima ed efficientissima Siviglia qualcosa mi ha lasciato "fuori", non mi ha mai veramente incluso, ingoiato, digerito. Un po' come nella mercimoniosa Venezia cantata da Guccini più di 40 anni fa. Questa è la vera differenza oggi tra le due capitali del sud. Napoli è (ancora) un'esperienza dell'anima - anche quando vorresti maledirla - e il senso stesso, per quanto talora amaro, del cammino. Siviglia è invece solo una tappa del viaggio, che - noi napoletani lo sappiamo bene - resta per tutti comunque breve.

*Neurologo - responsabile sezione Sanità Confindustria Benevento