Le due "luci" (mai spente) della musica italiana

Da Lucio Dalla a Lucio Battisti, ricordi di un'epoca che resta nella storia della musica

le due luci mai spente della musica italiana
Napoli.  

Non so che tempo ci fosse in quei due giorni di marzo del 1943 - il 4 e il 5 per la precisione - in una Italia sventrata e ammutolita dalla guerra, quale congiunzione astrale imperava su un paese piegato e stanco, quali stelle comete si succedettero come due nuove Betlemme. Non so neanche se quel mese fu pazzerello, come prevede il proverbio popolare, con i primi tepori a rincorrere gli ultimi brividi, o regnava solo un gelo di mortaio.

Ho cercato, c'ho provato, a trovare tracce di eventi eccezionali in mezzo al turbinio delle contraeree, allo sconquasso delle bombe, alle conte giornaliere dei morti e dei sopravvissuti, alle fughe precipitose nei rifugi, alla paura degli amici prima che dei nemici, alla fame che accomunava (quasi) tutti, agli abbracci frettolosi ma duraturi. Niente. Nulla di ufficiale è riportato in quella epopea di trasmigrazioni continentali, in mezzo a quella calca di rifugiati senza meta. Eppure in albe successive, solo in apparenza ordinarie, a distanza di 362,7 chilometri l'uno dall'altro, nascevano due tra i più grandi, influenti ed emblematici musicisti e cantanti "leggeri" italiani di sempre - per quanto sia riduttivo confinarli solo dentro i nostri limiti nazionali e unicamente al facile ascolto musicale.

Prima Lucio Dalla a Bologna e poi Lucio Battisti a Poggio Bustone, paesino collinare di poche anime, sconosciuto ai più, in provincia di Rieti. Due luci - come l'etimologia dei loro nomi prevede - si erano accese nel ventre torbido e insanguinato della nostra povera penisola per diventare via via più splendenti e infine illuminarla tutta.

Ho ascoltato per la prima volta Dalla nell'inverno del 1971. I peripuberi come me uscivano appena dal limite temporale invalicabile del Carosello. Ma ancora solo per eventi eccezionali. E Sanremo lo era. Il titolo della canzone che lui presentò - lo avrei scoperto solo dopo - era in realtà "Gesù Bambino", ma gli annali riportarono (e lo fanno ancora) quello di "4 marzo 1943", escamatage censurato e posticcio, come lo erano alcune delle parole di quella canzone rese fiacche e abituali dal biasimo di stato per evitare che nuove idee di libertà e rinnovamento prendessero il sopravvento. Che follia! Come se si potesse in qualche modo arginare la marea inarrestabile e allora ancora gioiosa del futuro.

La storica anomalia di quel Sanremo, tuttavia, non fu tanto la presenza buffa e apparentemente fuori contesto di Lucio Dalla e della sua canzone, ma il fatto che tra Rosanna Fratello, Gigliola Cinquetti, i Ricchi e Poveri o Al Bano - che già erano tanta (nuova e buona) roba rispetto ai Claudio Villa e ai Renato Rascel dell'edizione precedente - quello strano personaggio emiliano arrivasse terzo. "Qualcosa" - ricordo nitidamente di aver pensato tra me e me - "è cambiato per sempre". Accolsi la notizia con gioia e senso di riscatto - da che era tutto da stabilire - ma era solo l'ultima in un mondo (quello della musica italiana) che già da qualche anno ribolliva e si rinnovava, per merito soprattutto - anche questo lo avremmo scoperto dopo - di un ragazzo timido e dalla esile voce che, in prima persona e non solo, aveva già portato una ventata tanto nuova e personale da risultare poi rivoluzionaria sia nel panorama musicale italiano che nelle nostre asfittiche vite. Eggià perchè la musica, parafrasando il titolo di una canzone di un altro grande cantautore genovese, "ci girava intorno", ci eccitava, ci arricchiva, ci emozionava, ci accomunava, ci acculturava e ci educava.

Quel ragazzo riccioluto dall'aria perbene, quello straordinario innovatore senza folle esultanti di critici alle spalle né pugni chiusi ai suoi (pochi) concerti, quello sperimentatore senza zazzera, tuttora incompreso - la sua ultima produzione con Pasquale Panella ancora va capita e giustamente apprezzata - quell'antidivo per antonomasia ("per me parla la musica", era solito dire), quella "luce purissima", come lo ha di recente definito il suo amico e sodale di sempre Mogol, era Lucio Battisti.

Da quegli anni a cavallo tra la fine dei '60 e gli inizi dei '70 ognuno dei due cantautori ha seguito la sua strada, non dando mai cenno alcuno di titubanza o di tradimento delle scelte inizialmente compiute. Neanche quando Dalla abbandonò Roversi e Battisti Mogol. Una strada che non prevedeva in ogni caso la presenza o anche solo il temporaneo congiungimento col lavoro dell'altro. Come se le loro diversità umane e anche professionali (che c'erano tutte) costituissero una ragione ostativa e insormontabile per incontrarsi. In comune hanno avuto però che, nella loro continua ricerca della perfezione, provando a trasformare la musica italiana entrambi hanno finito col cambiarci per sempre. E, a dispetto di qualche voce stonata, che li vorrebbe (ora come allora) chi migliore e chi peggiore, continuano imperterriti a farlo. Manco fossero nati ieri.

L'universalità e la modernità sono, infatti, le ragioni fondanti del loro successo e della loro immortalità musicale. Come se ad ogni riascolto qualcosa ancora si smuovesse dentro di noi e una qualche nuova e sorprendente "emozione" dovesse ancora prendere il sopravvento. Come due stelle che sono apparse (quasi) all'unisono tra miliardi di altre e che, pur distanti tra loro, continuiamo ogni volta intimamente a riconoscere.

*Neurologo, responsabile sezione Sanità Confindustria Benevento