Il covid è pericoloso, non guarda all'età, alle condizioni di salute: magari hai meno di quarant'anni, stai bene e ti ritrovi intubato e a in pericolo di vita.
Francesco Ferreri, ragazzo napoletano, ha raccontato con un post toccante quanto gli è accaduto: tra la paura di non tornare a casa da sua moglie e dal suo bimbo (i suoi, ne aspetta un altro) e vedendo le persone accanto a lui soccombere alla lotta col virus:
«È stato un mese che non dimenticherò mai.
Inizio marzo.
Da qualche giorno avvertivo fastidi ai muscoli, alle ossa, ma niente che facesse presagire quello che da lì a poco sarebbe accaduto.
Il 5 marzo ho effettuato il tampone: positivo.
Come al solito ho provato a riderci su, Maria e Diego in isolamento ed io a casa con qualche decimo. Poi la febbre alta, i dolori ovunque, la spossatezza, la diarrea, la perdita di gusto e olfatto e i dolori alle spalle.
Cura inadeguata, ovviamente non per mia volontà, e saturazione che al quinto giorno inizia a scendere: 95, 93, 91. Prime preoccupazioni, ovviamente provando a non fare capire agli altri il mio reale stato di salute.
Poi arriva il giorno 10, compleanno di Giuseppe, a cui non riesco nemmeno a fare gli auguri in videochiamata.
Mattina del giorno 11 e inizia l'affanno, ormai non mangio già da giorni e la spossatezza è ingestibile.
Arriva la notte del giorno 11 e chiamo il 118.
Decisione maturata grazie al prezioso aiuto di Enzo, il marito di mia cugina che mi ha aiutato a prendere la decisione giusta. Senza il suo aiuto non so come sarebbe andata a finire e gli sarò riconoscente per tutto il resto della mia vita. Ha avuto la pazienza di seguirmi e di dirmi cosa fare, senza mai allarmarmi e provando a farmi rimanere tranquillo.
Arriva la mattina del giorno 12, non dormo da giorni, i dolori al petto e alle spalle sono insostenibili. Affanno anche solo prendendo il telefono. La saturazione è ormai stabilmente sotto i 90 nonostante avessi la bombola dell'ossigeno attaccata.
Arrivo a 88, poi 85 e sento che le forze mi stanno abbandonando. Nel frattempo si è creata una task force tra la mia famiglia e provano a tranquillizzarmi in tutti i modi.
Ormai è deciso, devo andare in ospedale.
Finalmente verso le undici arriva l'ambulanza.
Preparo una borsa e scendo a fatica le scale, Maria non riesce a guardarmi dalla finestra. Chiudo la porta e penso: chissà se tornerò più.
Il viaggio in ambulanza sembra durare ore, arrivo a mezzogiorno al pronto soccorso del Cardarelli e lì comincia il secondo tempo con la malattia.
Entro e mi fanno qualsiasi cosa, uno stanzone con trenta disperati che lottano per la vita.
Medici ed infermieri che corrono ovunque.
Dopo alcuni esami, prelievi e tac i dottori mi cambiano le maschere.
La saturazione non sale in nessun modo, così decidono di mettermi in subintensiva col casco. Giorni dopo il dottore mi dirà che i miei polmoni ossigenavano solo al 20% e che la polmonite bilaterale interstiziale era in forma grave.
Provo a non farmi prendere dal panico, voglio vivere.
Il dottore vuole intubarmi, provo a fare un cenno con la mano ma ovviamente il mio parere conta zero. Saprò, giorni dopo, che il rianimatore ha invece optato per il casco.
Quattro giorni, novantasei ore col casco ossigeno in testa. Rumore assordante, dolori ovunque, polmoni che respirano solo tramite supporto del casco.
Intorno a me tutti lottano, ognuno con i propri mezzi. Ed ogni tanto si sente il bip dei macchinari che smette di suonare.
E così ti trovi di fronte a lei, la morte.
In quattro giorni ne ho visti morire quattro.
Altri moriranno nel reparto.
Persone come me, come voi che state leggendo.
È un attimo, si ha fame di ossigeno. Qualche movimento sconclusionato con le braccia, gli occhi che si spalancano e poi finisce tutto.
Muoiono persone di tutte le età, un ragazzo di 41 anni, padre di due figli, non tornerà più a casa.
Io penso a loro a casa. Maria che potrebbe restare sola a dover crescere due bambini, la mia famiglia a cui avrei dato il più grande dolore che si possa immaginare.
Vivo momenti di paura, ma mai di rassegnazione. Probabilmente ho qualche allucinazione perché i volti degli altri pazienti diventano i volti delle persone care che non ci sono più. Vedo le mie nonne, le zie. Forse non sono allucinazioni, forse sono lì per proteggermi, per lottare con me perché il mio momento non è giunto ancora.
Mi piace pensare che è andata così, che in quei momenti avevo con me chi mi ha amato in vita e continua ad amarmi da qualsiasi altra parte.
Mi protegge anche tutta la mia famiglia, aggiornandomi sulla mia situazione clinica, nonostante io sapessi bene che la battaglia è
fosse lunga e difficile.
Tante bugie a fin di bene, scoprirò poi che Maria è finita in ospedale per delle perdite, che ha avuto il covid. Cose che probabilmente mi avrebbero ammazzato se le avessi sapute.
Delia e Maria che, nonostante la gravidanza, hanno sostenuto e portato un peso sulle spalle enorme. Loro che avrebbero bisogno di protezione e che invece si sono ritrovate con un fardello enorme da dover gestire.
I loro bimbi che hanno avuto una forza enorme e che probabilmente hanno dato alle mamme la forza affrontare questo dolore.
Vengo inondato dall'affetto di tutti: cugini, zii, zie, amici, conoscenti.
Colgo l'occasione per ringraziare tutti. Ogni messaggio, ogni audio, ogni video, ogni chiamata era davvero ossigeno per me. In quei momenti realizzi che ci sono tante persone che ti vogliono bene e che non sei solo.
Poi, dopo quattro giorni, finalmente mi portano in reparto e mi faccio altri due giorni di casco.
Il martedì il dottore entra in stanza e, dopo 18 esami emogas, mi dice testuali parole: "dici ciao al casco, salutalo".
La gioia è enorme, mi sento rinascere nonostante i dolori ovunque.
Riacquisto la fame e chi mi conosce sa cosa significa.
Riacquisto autonomia, anche semplicemente andare in bagno da solo e lavarmi è una conquista.
Nei giorni a seguire mi sento sempre un poco meglio, soprattutto mentalmente. La morte la vedo ancora, perché anche nei reparti purtroppo c'è chi non ce la fa.
Ad ogni persona che muore, piango e mai smetterò di ricordare quei momenti.
Però devo continuare a lottare, la polmonite c'è ancora e il virus è ancora presente. Lo sento per il corpo, in ogni angolo.
Mi tolgono il casco e faccio altri giorni con l'ossigeno, cambiando mascherine di tutti i tipi: alti flussi, bassi flussi, ormai sono un provetto pneumologo.
Poi arriva lunedì e, dopo due tamponi consecutivi, una dottoressa entra in camera e mi dice: "Ferreri, chiama a casa che alle due e mezza esci".
Piango, stavolta di gioia e quasi non mi sembra vero.
Sono felice, anche se so che dovrò aspettare ancora qualche giorno prima di rivedere anche Maria e Diego.
Il rientro a casa è surreale, sembro un astronauta.
Il momento in cui ho riabbracciato mamma, babbo, Delia e Giuseppe è stato indescrivibile.
Dopo qualche giorno ho rivisto Diego ed il cuore mi usciva dal petto, poi giovedì ho rivisto Maria e sono tornato a respirare.
Finalmente il cerchio sì è chiuso, l'incubo è finito.
È stato un periodo duro e lo è tutt'ora, ma ho la fortuna di poterlo raccontare.
Non potrò mai smettere di ringraziare i medici e gli infermieri che mi hanno sostenuto in questa lotta. La loro professionalità e la loro umanità sono stati fondamentali. Per quasi un mese sono stati la mia famiglia ed io non potrò mai dimenticarlo.
Come non potrò mai smettere di ringraziare tutta la mia famiglia.
Vi ho raccontato una decima parte di quello che ho visto e che c'è in quei reparti, ma è davvero l'inferno in terra.
Adesso devo ovviamente continuare le cure e il decorso è ancora lungo, però lo affronto con serenità e tenacia, provando a godermi ogni singolo momento che la vita vorrà donarmi.
Voglio godermi il secondo figlio in arrivo, il mio primo nipotino in arrivo e la mia splendida famiglia.
Voglio godermi la vita, perché ho lottato e mi sono meritato questa seconda possibilità».
Covid: «La paura di morire, con chi mi moriva accanto»
Il toccante racconto di Francesco: «Quando ho lasciato casa ho avuto paura di non tornarci più»
Napoli.