Napoli ai tempi del coronavirus

La città densa dove ci si mescola tra il sangue versato e il contagio temuto

napoli ai tempi del coronavirus
Napoli.  

Piove su Napoli, una pioggia che molti sperano sia quella manzoniana capace di pulire, di purificare, di portare via la peste ma che semplicemente la rende solo più triste. 

La città è spaventata, presa da qualcosa che non è definibile come psicosi perché è più profonda.
A Napoli si vive sempre a contatto con l’altro, dove le vite altrui ti entrano in casa anche se ti blindi dentro. La densità abitativa qui è umanità, sono i suoni che si mischiano ai rumori, è l’aroma e il fetore che si mescolano. In questa realtà urbana sovraffollata le esperienze si intrecciano senza alcun filo logico ma seguendo un copione improvvisato che risponde a quell’anarchia vivace di questa terra da sempre precaria.

Napoli, la città di passaggio, che ha fatto degli attraversamenti la sua forza, della miscela la sua storia, del mischiarsi la sua cultura, oggi si sente fuori posto, in un mondo dove non si può più toccare, dove gli abbracci sono vietati e il metro è diventato l’unità di misura del rapporto umano. 

Nella città degli opposti, dove il padre di un ragazzino di 15 anni ucciso mentre faceva una rapina, manifesta la solidarietà alle forze dell’ordine davanti alla caserma Pastrengo, oggetto di un attacco camorristico, l’euforia non è un tratto genetico ma una conseguenza di quel perenne movimento di quel continuo strusciarsi, di quell’inarrestabile e frenetico spostamento che ha reso queste strade e questi vicoli luoghi creativi nel bene e nel male.

In questa realtà il coronavirus colpisce nel profondo l’essenza della città, quel continuo rapporto tra pieno e vuoto, tra luci e bui, tra bellezza e orrore. 

Napoli oggi, dopo una settimana di confusione, di ammuina, di concorsoni, di chiusure, di paure, di sangue, di quarantene e isolamenti, riposa e pensa a come tornare a respirare. Sopra la città aleggiano, senza scalfire la vita reale, le polemiche, le strategie politiche, gli errori, le ordinanze tardive, i decreti arrivati a cose fatte, le separazioni e le alleanze.  

Per la prima volta siamo stati noi il nord ed erano gli altri gli appestati e per la prima volta l’Italia ha dimostrato di poter essere solidale, per la prima volta una curva in uno stadio non ha urlato “lavali con l’amuchina” ma ha espresso solidarietà a chi vive un incubo, senza invocare terremoti e senza tirare in ballo le mascherine.

Per la prima volta ci si è riconosciuti nel dolore degli altri o così è sembrato, nonostante i titoli di Libero e le squallide affermazioni razziste di qualcuno. 

Questa Napoli spaventata dal virus, sporcata dal sangue dell’ennesimo dramma criminale e costretta a non potersi strusciare ha dato ancora una volta una lezione di umanità sulla quale va ricostruita una città da riscoprire per riconsegnarle il posto che merita nel mondo.