C’è stato un tempo, che molti di noi guardavano dal vetro opaco di un’antica finestra, in cui le storie non venivano consumate, ma vissute con la delicatezza di un soffione e la profondità del mare in tempesta, qui ogni parola pareva radicarsi nel silenzio e nella devozione e ogni incontro portava con sé una rivelazione.
Il libro “Liane e Marcello – un infinito amore” di Tommaso Maria Ferri non nasce come atto creativo di finzione ma è vero, autentico, in un momento storico ben definito, lontano da noi, eppure presente. Ci troviamo davanti ad un atto di scoperta, una sorgente che, da una fenditura nella pietra antica, sgorga di nuovo e vede la luce dopo aver spinto la sua forza nel sottosuolo della dimenticanza. Così viene in superficie per essere “vista” dagli occhi capaci ed attenti del cuore.
Premetto, non per pudore, ma per fedeltà alla natura stessa del romanzo, che la trama non si svela. La meraviglia della scoperta è così bella e fragile che va, assolutamente custodita. Andare ad analizzare o raccontare come e per quali vie si dipana la storia, finanche giungere al finale, significherebbe spezzare il filo segreto che lega la pagina al lettore, interrompere il miracolo dell’inchiostro che, diventato verbo, si fa strada nella mente.
Significherebbe cancellare la magia che unisce l’empatia a questo o quel personaggio, finanche indirizzare il percorso emozionale di chi apre il testo e dovrebbe trovare (io almeno lo pretendo) un terreno inesplorato, vergine.
Veniamo così a raccontare alcune suggestioni personali che nascono dalla lettura di questo romanzo in cui la protagonista principale è la fede nell’amore. Si ritempra la dolcezza del pensiero, si concepisce l’assioma dell’essere noi rispetto alla solitudine dell’io e, parafrasando Kierkegaard, diremo: "Il vero viaggiatore scopre che la meta era il viaggio stesso”, in questo libro: ogni passo, ogni parola, è già una destinazione.
- Come in un controcanto sommesso ma persistente, una musica vibra tra le pagine, a me è parso di sentire, nitida, La Traviata di Giuseppe Verdi. Liane come Violetta Valéry, con le necessarie distinzioni, pare cantare lo struggente:
"Amami, Alfredo, quant’io t’amo!"
In entrambe l’amore non è rifugio ma fiamma: chiamata irresistibile dell’anima solitaria verso la totalità dell’essere. Liane, come Violetta, sente che amare significa esporsi, consumarsi, elevarsi.
Violetta nell’aria: "Ah, fors’è lui che l’anima solinga ne’ tumulti ansiosi consola..."
Così Liane riconosce nell’amore non una fuga mondana, ma un gesto assoluto dello spirito e della sua stessa esistenza. - Filosoficamente, credo che il romanzo si radichi, profondamente, nel pensiero hegeliano, in quella coscienza di sé nell’altro e nella conoscenza della propria unità con questo.
Non ci troviamo di fronte ad un annullamento quanto al riconoscimento reciproco: due libertà che si ritrovano più vere perché spinte dal destino e dalla decisione di stare insieme.
Liane e Marcello non si perdono l’uno nell’altro, ma si incastrano, si ritrovano, si completano senza smettere di essere sé stessi.
È la sintesi vivente di una dialettica che supera il conflitto senza negarlo: tesi ed antitesi che animano la stessa fiamma di una candela che, nell’oscurità, indica l’atto di affidamento al buio e la sua resistenza. - Ed ancora, il capitolo dedicato al perdono credo sia uno dei cuori pulsanti del romanzo. Gli altri li scoprirete da soli.
Come il figliol prodigo narrato da Luca, Marcello ritorna all’origine, al padre, offrendo non l’umiliazione della colpa, ma il frutto maturato dalla sofferenza.
Qui viene alla luce la misericordia: il cuore che si china sulla miseria dell’altro. È vedere non l’errore, ma la ferita che lo ha generato.
Il perdono è il gesto che nasce dalla rottura delle catene dell’odio, è scegliere di liberare l’altro — e se stessi — dal peso della colpa.
L’amore è l’origine di tutto. È quell’energia che non si ferma davanti all’offesa, che non aspetta giustizia per tendere la mano.
Misericordia, perdono e amore sono tre passi di un unico cammino: il cammino di chi non si limita a giudicare, ma si lascia toccare, salva e ricrea la magia del legame.
Il perdono filiale ha una natura profondamente diversa da quello che avviene tra due fidanzati.
Quando un figlio perdona un genitore — o viceversa — l’atto è radicato in un amore che esiste prima di ogni errore, di ogni delusione: ci troviamo davanti ad un amore originario, primordiale, che accompagna e precede la vita stessa.
Non nasce da una scelta libera come in una relazione sentimentale, ma da un legame di sangue, di carne, di destino.
Per questo è, in un certo senso, più doloroso e più radicale: richiede di guarire ferite che toccano l’identità stessa della persona.
Perdonare un genitore significa, a volte, perdonare anche la propria storia, accettare che l’amore ricevuto fosse imperfetto, che chi avrebbe dovuto proteggerci era umano, fragile, manchevole.
Diversamente, tra fidanzati il perdono si inserisce in una dinamica di scelta reciproca. Due fidanzati si sono voluti, hanno deciso di camminare insieme, e il perdono serve a ricucire uno strappo che mette in discussione proprio quella scelta.
È una possibilità, non un obbligo naturale: si può anche decidere di non perdonare, di interrompere il cammino comune.
Nel perdono filiale, invece, il legame non si scioglie: si può prenderne le distanze, si può costruire una nuova relazione adulta, ma la radice rimane.
Il perdono qui non è solo guarigione dell’altro, è soprattutto guarigione di sé. Non si perdona solo per l'altro, ma per liberarsi dal peso della rabbia, del risentimento, della tristezza che, altrimenti, ci inchioderebbe a un passato ferito.
In questo senso è atto d’amore alto: è riconoscere nell’altro la sua fragilità, come specchio della nostra, ed è scegliere di amarlo nonostante tutto, come in fondo avremmo voluto essere amati.
- La fede, per Cristo e per i Santi, è un altro tema che accompagna il romanzo, e la si percepisce come respiro nascosto, in aggiunta all’elezione assoluta dell’amore.
Chi ama crede nell’altro nella consapevolezza che il suo bene conta quanto — o più — del proprio.
Eppure, sembra di capire, che senza la fede, l’amore non regge: resta solo un patto fragile, esposto al sospetto, all’orgoglio, alla paura.
La fede nell’amore è fiducia: credere nella verità dell’altro anche quando non si riesce a vedere, anche quando è lontano, anche (o forse soprattutto) quando sbaglia.
È generosa e indefinita attesa. È credere che ogni ferita può essere curata, che ogni distanza può essere colmata.
È speranza: fortissimamente credere che l’amore abbia sempre l’ultima parola, più resistente della fatica, incapace di soccombere ai tradimenti, anche a quelli del tempo.
In questo senso, la fede nell’amore è una scelta senza soluzione di continuità, non un’illusione: è una decisione.
È stare, ricominciare, credere nel “noi” anche quando il mondo intorno crolla.
Amare è fidarsi dell’altro, senza prove. È affidarsi. È scommettere tutto sul mistero (spesso inesplorato fino in fondo) dell’altro cuore. - Infine, anche la copertina parla un linguaggio comprensibile alla mia indagine.
La spilla (sicuramente un cimelio storico di famiglia) a forma di infinito intrecciato, ornata da due stelle marine e due perle, credo sia il manifesto silenzioso del romanzo.
Le stelle, poste ai capi opposti dell’infinito, a rappresentare due mondi diversi e lontani eppure legati da un filo (rouge) che le attraversa, anche nella minima differenza di grandezza, richiamano quelle creature che vivono nei fondali marini, capaci di rigenerarsi, di evocare la distanza e insieme la tenacia dell’amore.
Le perle, nate da un evento traumatico, una ferita, la sabbia che entra nella conchiglia, incarnano una verità: dal dolore può nascere un’autentica e assoluta bellezza.
Platone insegna, nel Simposio, che la bellezza è figlia della mancanza o povertà (Penìa) e dell’abbondanza (Pòros) e sicuramente chi ha conosciuto una ferita può generare l’opera d’arte più alta nell’unione, non fusione, di due entità con due anime distinte che si completano e si rincorrono a vicenda.
Tommaso Maria Ferri riesce a scrivere, con estrema eleganza, il romanzo calandosi nella lingua e stile ottocentesco ma con una musicalità e innesti di modernità che da un lato, offrono al lettore il respiro solenne e cadenzato dell’Ottocento, dall’altro, l’immediatezza vibrante della modernità.
Ogni parola è un tocco, lieve, su un’arpa antica, accordata per suonare ancora tra mani nuove: il linguaggio scivola veloce e ogni immagine risuona in un’eco di comprensione che è prima scenografica e poi esistenziale.
L’autore riesce, altresì, a mettersi nei panni di Marcello e per questo il lettore lo vede sin dalle prime battute, non terzo ma protagonista assoluto con tratti di autobiografismo, seppur lieve.
Ci sono libri che si leggono, altri che ti leggono.
Liane e Marcello appartengono a questa seconda categoria, ti legge e ti attraversa.
Come note della Traviata, continua a vibrare anche dopo l’ultima pagina, ricordando a ciascuno di noi che:
"Chi ama crede. Chi crede vede… e, nonostante il tempo, l’amore trova sempre la sua via per tornare alla luce.