Alle 7.20 del 19 marzo 1994 don Peppino era in chiesa già da un po’. Era il giorno del suo onomastico: San Giuseppe. Più tardi, in mattinata, avrebbe dovuto festeggiare con qualche amico. Uno di loro, Augusto Di Meo, lo aveva raggiunto di buon’ora in parrocchia. Tra i banchi, si erano già sistemate alcune persone per assistere alla prima Messa della giornata. Fuori, nel piazzale antistante, si era appostata una macchina, dalla quale, arrivato don Peppe, era sceso un uomo sulla quarantina, capelli lunghi e giubbotto nero.
Fu lui a raggiungere il sacerdote in sagrestia, dove, in compagnia di Augusto, don Peppe stava indossando i paramenti sacri. “Chi è don Peppe?”. Una domanda strana, alla quale arrivò pronta la risposta del prete: “Sono io”. Quattro dei cinque colpi di calibro 7,65 esplosi dal killer andarono tutti a segno. Don Peppino morì all’istante, senza avere neanche il tempo di rendersi conto di quanto stava accadendo. L’assassino uscì dalla chiesa, risalì a bordo dell’auto sulla quale lo aspettavano i complici e si dileguò.
Chi ordinò l'assassinio
Nel 2003 è stato condannato all’ergastolo, come mandante dell’omicidio di don Peppe, Nunzio De Falco. Arrestato dopo una breve latitanza in Spagna, o’ lupo - come era soprannominato - tentò inizialmente di addossare le responsabilità del delitto al boss Francesco Schiavone. Successivamente, messo alle strette dalle rivelazioni del collaboratore di giustizia Giuseppe Quadrano, esecutore materiale del delitto, fu costretto a confessare. È morto nell’aprile del 2022 per un male incurabile. Quadrano è stato condannato a 14 anni. Nel marzo del 2004 è arrivata anche la condanna all’ergastolo per Mario Santoro e Francesco Piacenti, ritenuti coautori dell’omicidio.
La scelta di uccidere don Giuseppe Diana - scrivono i giudici - ebbe soprattutto una forte carica simbolica, come segnale che avrebbe dovuto essere dirompente e risolutorio nella contrapposizione tra il gruppo De Falco-Quadrano e i casalesi. Nel processo, che ha visto la costituzione di parte civile dei familiari di don Peppe e dell’Agesci, decisiva è stata la testimonianza di Augusto Di Meo, che ha allertato i Carabinieri subito dopo l’omicidio e riconosciuto in Quadrano il killer.
Lui diceva
Lo scritto più intimo e profondo di don Giuseppe Diana, praticazmente il suo testamento morale, è la lettera Per amore del mio popolo, una sorta di manifesto dell'impegno contro il sistema criminale.
«La camorra riempie un vuoto di potere dello Stato che nelle amministrazioni periferiche è caratterizzato da corruzione, lungaggini e favoritismi. La camorra rappresenta uno Stato deviante parallelo rispetto a quello ufficiale, privo però di burocrazia e d’intermediari che sono la piaga dello Stato legale. L’inefficienza delle politiche occupazionali, della sanità, ecc, non possono che creare sfiducia negli abitanti dei nostri paesi, un preoccupato senso di rischio che si va facendo più forte ogni giorno che passa, l’inadeguata tutela dei legittimi interessi e diritti dei liberi cittadini; le carenze anche della nostra azione pastorale ci devono convincere che l’Azione di tutta la Chiesa deve farsi più tagliente e meno neutrale per permettere alle parrocchie di riscoprire quegli spazi per una “ministerialità” di liberazione, di promozione umana e di servizio. Forse le nostre comunità avranno bisogno di nuovi modelli di comportamento: certamente di realtà, di testimonianze, di esempi, per essere credibili».
Il ricordo di Mattarella
"Don Peppino era un uomo coraggioso, un pastore esemplare, un figlio della sua terra, un eroe dei nostri tempi, che ha pagato il prezzo più alto, quello della propria vita, per aver denunciato il cancro della camorra e per aver invitato le coscienze alla ribellione. Don Diana aveva capito, nella sua esperienza quotidiana, che la criminalità organizzata è una presenza che uccide persone, distrugge speranze, alimenta la paura, semina odio e ruba il futuro dei giovani. Usava parole "cariche di amore" come ha ricordato Maria, la sorella. Parole chiare, decise, coraggiose.