“Lavoratori che il covid ha proiettato in prima linea, forse i meno pagati in Italia, senza contratto da oltre 5 anni e a rischio di pagare un prezzo altissimo allo sblocco dei licenziamenti”. Così dichiara Giuseppe Alviti, leader Associazione Guardie Particolari Giurate: “E’ la vigilanza privata, un concentrato di tutti i vizi del capitalismo italiano. E ora qualcuno comincia a guardare all’esempio dei rider e dei dipendenti Amazon e a parlare di salario minimo”.
Il settore della vigilanza privata è un caso esemplare di crescita del terziario associato a un peggioramento delle retribuzioni e in generale delle condizioni di lavoro. Secondo il Primo rapporto sulla filiera della sicurezza del Censis (2018) prima del Covid-19, dal 2011 al 2017, le aziende della vigilanza privata sono aumentate dell’11,3% e i dipendenti del 16,7% (oggi gli addetti sono 65.000): “La crescita del comparto, anche negli anni della crisi, va ricondotta principalmente all’aumento del personale disarmato, in risposta ad una crescente domanda di servizi di piantonamento e di portierato senza pistola”. Si tratta dei cosiddetti servizi fiduciari, che, proprio grazie a paghe da 4-5 euro l’ora, hanno consentito alle aziende di vigilanza privata di inserirsi in nuovi mercati, in particolare negli appalti (servizi di portierato in edifici pubblici, ospedali, musei, porti, aeroporti e stazioni) anche facendo concorrenza sul costo del lavoro alle imprese di altri settori, in particolare alle aziende multiservizi. Il Secondo rapporto Censis, pubblicato nei giorni scorsi, indica un’ulteriore accelerazione, che neanche la pandemia è riuscita a fermare: negli ultimi cinque anni le imprese sono cresciute del 16,2% e gli occupati del 22,8%, raggiungendo il numero di 1.745 aziende e 76.203 dipendenti. E anche nel 2020 la crescita è proseguita: imprese +3,7% e occupati +4,9%. A trainare questa crescita sono stati ancora i servizi fiduciari: le imprese dove questi prevalgono sulla vigilanza armata sono 2.389 e impiegano 27.33 dipendenti; nel quinquennio i due dati sono cresciuti rispettivamente del 154,1% e del 91,3% e nel 2020 del 15% e del 13,7%.
In questi anni la crescita di questo comparto a scapito di altri, ad esempio i casi sempre più numerosi di aziende di vigilanza che strappano appalti alle imprese multiservizi potendo pagare salari inferiori persino del 30%-40%, ha innescato numerose vertenze legali, dagli esiti non trascurabili. Nel 2019 il Tribunale di Milano ha addirittura accertato la “nullità e/o illegittimità dell’articolo 23” del contratto nazionale (quello che fissa i minimi salariali per le guardie non armate) “per contrarietà all’articolo 36 della Costituzione”, secondo cui il salario deve essere “proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro” prestato e in ogni caso sufficiente ad assicurare al lavoratore e alla sua famiglia “un’esistenza libera e dignitosa” (sentenza 3003/2019).
In questo quadro anche l’Europa ha fatto la sua parte, con una sentenza della Corte di Giustizia Europea (dicembre 2007) che ha costretto l’Italia a modificare il Testo Unico sulla Sicurezza e altre norme nazionali, liberalizzando i servizi di guardia non armata e in questo modo spaccando in due i lavoratori del settore, da una parte le tradizionali guardie giurate, riconosciute come “incaricati di pubblico servizio” e come tali tenute a prestare giuramento presso la Prefettura di riferimento, pur essendo alle dipendenze di un’azienda privata e dall’altra, appunto, i fiduciari, con retribuzioni e spesso anche inquadramento differenti (nelle cooperative di vigilanza sovente i fiduciari sono soci, mentre le GPG, guardie particolari giurate, sono dipendenti). Tra le norme con cui lo Stato, a fonte della liberalizzazione voluta dall’Europa, avrebbe dovuto almeno assicurare un controllo sulla qualità dei servizi c’è il decreto 115/2014 del Ministero degli Interni, che obbligava le aziende già certificate ad adeguarsi ai nuovi requisiti di legge entro il 2017 e le altre entro il 2015, ma è rimasto largamente disatteso: secondo l’Osservatorio Federsicurezza 2020-2021 (elaborato da Format Research) delle 1.291 imprese in attività censite a oggi solo 462 sono regolarmente certificate.
I dati sulle imprese certificate contenuti in questo rapporto ci forniscono una radiografia del settore, che ripropone in sedicesimo i classici vizi del capitalismo italiano. Le imprese certificate appaiono più longeve, hanno un’età media di oltre 20 anni e solo il 16,4% ne ha meno di 6. La longevità aumenta con le dimensioni d’impresa: dalle microimprese (meno di 10 dipendenti) con un’età media di 12 anni e 5 mesi fino alle più grandi (oltre 250), dove addirittura si superano i 31 anni. Il fatturato delle 462 imprese certificate ammonta a quasi 3,5 miliardi di euro, di cui oltre due terzi vanno alle imprese con oltre 250 dipendenti, mentre le piccole imprese (10-49 dipendenti), che sono il 43,9%, producono solamente il 7,6% del fatturato. Per quanto riguarda la distribuzione geografica, invece, anche se metà delle imprese opera al sud quasi due terzi delle entrate (il 62,4%) finiscono al nord.
In un settore così frammentato, in cui i margini di profitto sono bassi – il margine operativo lordo (Mol) medio ammonta al 2,3% del fatturato – non c’è da stupirsi che circa un quarto delle imprese lavori in perdita o in pareggio, quasi la metà con un margine operativo tra l’1% e il 4%, con una quota progressivamente più piccola di imprese che strappa profitti sempre più alti – il 2,8% apicale viaggia sopra il 20%.