Fanno il deserto e lo chiamano Sud

I dati dello Svimez dovrebbero ridare al Mezzogiorno la forza di riscoprirsi laboratorio

L’Italia è sempre stato un Paese diviso, culturalmente, socialmente, politicamente e soprattutto economicamente. Quel divario che per secoli ha mostrato almeno due italie, una produttiva, ricca, industrialmente attiva che vive comodamente negli standard dell’Europa centrale, e una lontana, povera, dove l’industria ha rappresentato spesso non sviluppo, lavoro e crescita ma la distruzione di interi ecosistemi. 

Un divario mai colmato, troppo spesso nascosto, in un Paese nel quale ci si mise a discutere addirittura di questione settentrionale.  

Oggi con i dati forniti dallo Svimez nell’anticipazione del rapporto 2019 si ha solo la certezza di quello che viviamo quotidianamente. Contrazione dei consumi che dal 2008 al 2018 fa segnare un -9%, riduzione degli occupati di ben 107mila unità nel solo 2017, previsione di un Pil negativo per il 2019 e il dato drammatico di 2 milioni di emigranti che hanno lasciato il Sud dal 2007 al 2017.

Il Sud si sta svuotando, le comunità che lo abitano si stanno disgregando. I dati sulla migrazione rendono l’esistenza stessa di determinate realtà umane improbabile nei prossimi decenni. 

La demografia è noiosa, non scalda gli animi e soprattuto non serve a cavalcare le paure e le rabbie della modernità, ma è una scienza chiara che analizza gli effetti di un sistema economico che desertifica e svuota gli spazi umani.

I numeri sono chiari, se negli ultimi dieci anni il Sud ha perso un numero di persone pari ad una metropoli delle dimensioni di Napoli, è perché molti luoghi, molti spazi, molte comunità hanno perso il ruolo, innanzitutto geografico, che hanno avuto nelle epoche precedenti

Continuare con le lagnanze del Sud abbandonato, innamorarsi di un sogno di sviluppo tutto incentrato sul turismo e la bellezza che poi si riduce sempre in fondi per sagre, feste, marciapiedi e piazzette, rende la situazione ancora più drammatica. 

Affrontare un tema cruciale come l’autonomia differenziata come se fosse una mera questione tra partiti diversi e senza alcuna discussione seria, fatta di numeri e di ragionamenti scientifici, rende questo passaggio pericoloso per la tenuta nazionale.

Per esistere le comunità e i loro spazi hanno bisogno di un senso, di un ruolo, di un compito, di un fine. Oggi gran parte del Mezzogiorno affoga in un abbandono che si manifesta nella mancanza di una visione lunga dello sviluppo che possa ridare senso e funzione agli spazi geografici. A mancare non sono le risorse, né tantomeno le competenze, sono le capacità di una politica e di chi gestisce la cosa pubblica in senso largo, di vedere opportunità. 

Vivere in molte realtà del nostro Mezzogiorno è diventato difficile. I servizi mancano, i diritti si assottigliano, il lavoro e le opportunità non esistono e anche le cose più normali diventano complicate

In una fase storica nella quale si è connessi con il mondo, in un momento nel quale le distanze sono state annullate, in molte zone del Sud ci si sente tagliati fuori, impossibilitati nel poter esprimere le proprie qualità e coltivare i propri talenti. In molti luoghi del meridione le possibilità di investimento sono ridotte dall’incapacità e dalla mancanza di competenze delle amministrazioni locali. 

I dati dello Svimez dovrebbero ridare al Mezzogiorno la forza di riscoprirsi laboratorio politico, economico, sociale e culturale. Dovrebbero obbligarci a ridare valore alle tante zone industriali dismesse trasformandole in incubatoi di idee per i tanti giovani che invece vanno a realizzarsi altrove. Dovrebbero spingerci a rimettere in connessione le filiere agricole che ormai sono slegate. Dovrebbero convincerci a rimettere in rete le nostre università che hanno rappresentato nei secoli luoghi di cultura e di innovazione. Dovrebbero aiutarci a ridare alla nostra terra quella funzione di porto naturale capace di accogliere, di assorbire e di rielaborare tutto ciò che dal Mediterraneo arriva, uomini, idee, sofferenze e culture.