La crisi di sostenibilità del Servizio sanitario Nazionale sta raggiungendo il punto di non ritorno tra l'indifferenza di tutti i Governi che negli ultimi 15 anni, oltre a tagliare o non investire in sanità, sono stati incapaci di attuare riforme coraggiose per garantire il diritto alla tutela della salute. Con l'aggravante di ignorare tre incontrovertibili certezze: la sanità pubblica è una conquista sociale irrinunciabile e un pilastro della nostra democrazia, il livello di salute e benessere della popolazione condiziona la crescita economica del Paese e, infine, la perdita di un Ssn universalistico porterà a un disastro sanitario, sociale ed economico senza precedenti". Lo dichiara in una nota il presidente della Fondazione Gimbe, Nino Cartabellotta. L'emergenza Covid-19, si legge nella nota della Fondazione Gimbe, ha ulteriormente indebolito il Ssn, specialmente sul fronte del personale e il netto aumento del finanziamento pubblico negli ultimi anni è stato interamente assorbito dall'emergenza, tanto che ora le regioni rischiano di tagliare i servizi. Senza contare che il Ddl sull'autonomia differenziata potrebbe dare il colpo di grazia al Ssn. "E se durante la fase più drammatica dell'emergenza- sottolinea il presidente- tutte le forze politiche convergevano sulla necessità di potenziare la sanità pubblica, ben presto è ritornata nell'oblio. E i professionisti sanitari continuano ad essere ringraziati solo con la retorica degli eroi".
"Oggi i pazienti- tiene a precisare Cartabellotta- vivono ogni giorno le conseguenze di un Ssn ormai in codice rosso per la coesistenza di varie malattie: imponente sotto-finanziamento, carenza di personale per assenza di investimenti, mancata programmazione e crescente demotivazione, incapacità di ridurre le diseguaglianze, modelli organizzativi obsoleti e inesorabile avanzata del privato. Un Ssn gravemente malato che costringe i pazienti ad attese infinite, migrazione sanitaria, spese ingenti, sino alla rinuncia alle cure". Il ritardo delle prestazioni sanitarie accumulato durante la pandemia ha determinato un ulteriore allungamento delle liste di attesa che le regioni non riescono a smaltire nonostante le risorse stanziate dal Governo. "Così le persone sono costrette a rivolgersi al privato se ne hanno le possibilità economiche- spiega Cartabellotta- oppure attendere gli inaccettabili tempi di attesa delle strutture pubbliche sino a rinunciare alle prestazioni, con conseguenze imprevedibili sulla loro salute". Secondo una recente audizione dell'Istat, la quota di persone che hanno dovuto rinunciare a prestazioni sanitarie è passata dal 6,3% nel 2019 al 9,6% nel 2020, sino all'11,1% nel 2021. E se nel 2022 le stime attesterebbero un recupero con una riduzione al 7%, l'ostacolo principale rimangono le lunghe liste di attesa (4,2%) rispetto alle rinunce per motivi economici (3,2%).
Nel 2021 la spesa sanitaria in Italia ha raggiunto i 168 miliardi di euro, di cui 127 miliardi di euro di spesa pubblica (75,6%), 36,5 miliardi di euro (21,8%) a carico delle famiglie e 4,5 miliardi di euro (2,7%) sostenuti da fondi sanitari e assicurazioni (dati Istat). Secondo il recente Rapporto Crea Sanità nel 2021 la spesa privata è in media 1.734 euro per nucleo familiare, ovvero il 5,7% dei consumi totali. E nel 2020 oltre 600mila famiglie hanno dovuto sostenere spese 'catastrofiche', ovvero insostenibili rispetto ai budget, e quasi 380mila famiglie si sono impoverite per spese sanitarie, in particolare nelle Regioni meridionali. "La chiave di lettura- chiosa Cartabellotta- è chiarissima: la politica si è sbarazzata di una consistente quota di spesa pubblica per la sanità, scaricando oneri iniqui sui bilanci delle famiglie". Spiega il presidente della Fondazione Gimbe che "il monitoraggio del ministero della Salute sugli adempimenti ai Livelli essenziali di assistenza (Lea) documenta enormi diseguaglianze regionali, con un gap nord-sud ormai incolmabile, che rende la 'questione meridionale' in sanità una priorità sociale ed economica". Infatti, guardando ai punteggi Lea nel decennio 2010-2019, tra le prime 10 regioni, solo due sono del centro (Umbria e Marche) e nessuna del sud. Nel 2020 solo 11 regioni risultano adempienti ai Lea, di cui solo la Puglia al sud. Eccetto Basilicata e Sardegna, sono in Piano di rientro tutte le regioni del centro-sud, con Calabria e Molise commissariate.
E nel 2020 Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto attraggono il 94,1% della mobilità sanitaria. "Esistono poi- afferma Cartabellotta- altre diseguaglianze meno note: tra aree urbane e rurali, tra uomini e donne, oltre che correlate al grado di istruzione e di reddito. Ovvero, il Ssn garantisce una 'salute diseguale' che si riflette anche sugli anni di vita perduti". Infatti, il recente report dell'Eurostat documenta che in Italia si vive più a lungo nelle regioni del centro-nord, con la provincia autonoma di Trento in testa (84,2 anni), rispetto a quelle del sud, con la Campania fanalino di coda (80,9 anni). "Un inaccettabile gap di oltre 3,3 anni- commenta Cartabellotta- che dimostra come la qualità dei servizi sanitari regionali produca effetti evidenti sull'aspettativa di vita, vanificando quel vantaggio che le regioni meridionali avevano conquistato nei decenni scorsi grazie a favorevoli condizioni ambientali e climatiche e alla dieta mediterranea".
L'ultimo aggiornamento dei Lea risale al gennaio 2017, ma per mancanza di risorse non è mai stato approvato il cd 'Decreto Tariffe', relativo a specialistica ambulatoriale e protesica. "Di conseguenza- puntualizza- innovazioni quali la procreazione medicalmente assistita, lo screening neonatale esteso, ausili e dispositivi all'avanguardia come apparecchi acustici digitali, protesi di ultima generazione o carrozzine basculanti, oggi possono essere erogate solo dalle regioni non in Piano di rientro con risorse proprie, generando ulteriori diseguaglianze e tenendo in ostaggio i diritti dei pazienti. Intanto, il 'continuo aggiornamento dei Lea al fine di mantenerli allineati all'evoluzione delle conoscenze scientifiche' rimane solo un vuoto slogan, visto che i Lea non vengono aggiornati da oltre 6 anni, rendendo numerose innovazioni diagnostico-terapeutiche inaccessibili a tutti i pazienti che ne avrebbero diritto".
L'annuario statistico del Ssn pubblicato il 23 marzo restituisce l'entità dell'offerta delle strutture sanitarie private accreditate, ovvero rimborsate con il denaro pubblico. Nel 2021 risultano private accreditate: il 48,6% delle strutture ospedaliere (995), il 60,4% di quelle di specialistica ambulatoriale (8.778), l'84% di quelle deputate all'assistenza residenziale (7.984) e il 71,3% di quelle semiresidenziali (3.005), ovvero le due tipologie di Rsa, il 78,2% di quelle riabilitative (1.154). "E' necessario un repentino cambio di rotta- conclude Cartabellotta- indicato dalla Fondazione Gimbe con il 'Piano di rilancio del Servizio sanitario nazionale' che sarà presentato a Bologna il 31 marzo, in occasione della 15esima Conferenza Nazionale".