di Luciano Trapanese
Abbiamo tutti paura. Di un mondo che cambia troppo in fretta, a velocità mai conosciute. Frantuma certezze, suscita inquietudine, alimenta chiusure, xenofobia, nostalgie del passato. Un passato che non tornerà.
Abbiamo tutti paura. E di fronte a questa paura si reagisce in modi diversi. Ma ignorare questo sentimento, definire tutti quelli che trovano rifugio dietro i muri, i confini e la chiusura, l'odio per il diverso, come retrogradi fascisti, senza capire i motivi profondi di questo sentire, accresce gli odi e non consente di guardare oltre. Verso la gestione di un presente complesso. Probabilmente mai così complesso.
In mezzo secolo è cambiato tutto. Non era accaduto mai prima. Mai così rapidamente.
Le strutture familiari sono crollate: il divorzio è diffuso, così come la convivenza e la libertà sessuale.
Se prima ci informavamo solo grazie a poche e qualificate fonti, oggi le notizie ci raggiungono in ogni luogo, da ogni luogo e con un flusso continuo.
Il posto di lavoro fisso – un cardine del passato – è stato sostituito da una precarietà generalizzata. Una costante riqualificazione e ricerca, che non produce stabilità, che comporta esistenze sempre in bilico.
Siamo passati da una società decisamente patriarcale a una che prevede una sostanziale – ma ancora incompleta – parità di genere.
L'omosessualità è stata bandita dalla categoria del peccato, mentre l'omofobia si è inserita nella lista dei tabu.
Il cattolicesimo ha perso gran parte della sua attrattiva e della sua funzione, sostituito da un secolarismo spinto. Come mai era accaduto nella storia.
E tutto questo mentre viviamo in una costante ansia economica, generata da una globalizzazione che ha acuito diseguaglianze, frantumato l'idea di progresso, generato una povertà che l'occidente aveva lasciato dietro le spalle e che sembrava un malinconico ricordo dell'immediato dopoguerra.
In un quadro così fluido si inserisce una epocale ondata migratoria. Che diventa la madre di tutte le paure, fa dimenticare a molti che è solo una delle conseguenze di questi tempi, e la trasforma nella causa di questo malessere. L'attore principale della nostra angoscia, quello che spinge larga parte dei nostri concittadini a invocare ritorni al passato, confini blindati, ruspe, soluzioni estreme, pulizie etniche.
Una analisi – ma dalla parte americana – che è stata ribadita da tanti osservatori Usa per spiegare la vittoria di Trump, in particolare da Andrew Sullivan sul New York Magazine. Ma che non viene presa in considerazione. Nè negli Stati Uniti e neppure in Europa, tantomeno in Italia.
Da noi il dibattito politico resta ancorato alla legge elettorale, alle intercettazioni del padre di Renzi, alla surreale discussione sul reddito di cittadinanza (che è in realtà un semplice sussidio). Ma sulla “paura”, sul disorientamento di tanti cittadini, su quello che comporta davvero la rivoluzione in corso (quella digitale), c'è un silenzio sconcertante.
E così l'opinione pubblica continua a sbranarsi sull'immigrazione. Buonisti contro cattivisti. Accoglienti contro respingenti. Slogan contro slogan. Senza che nessuno offra una soluzione. Si lascia voce solo agli estremismi, a quelli che cavalcano la paura. O meglio, la paura dei migranti. Ignorando quella paura complessiva, quella vera, profonda, generata da un mondo che sta cambiando profondamente, fino alle radici.
La rivoluzione illuminista, ha modificato per sempre l'occidente. Ma ha generato decenni di violenza inaudita. La rivoluzione industriale ha causato sconvolgimenti simili. Ma entrambe in un arco di tempo molto lungo. La rivoluzione digitale corre molto più veloce. Avrà conseguenze radicali, alcune le stiamo già vivendo. Eppure nessuno sembra interessato a quello che provoca.
Gestire questa fase potrebbe garantire un passaggio meno doloroso verso quello che verrà. Ma – lo ammettiamo – abbiamo paura lo stesso. Nessuno può dire quello che accadrà e l'idea di progresso non sempre ha garantito un miglioramento per l'umanità.
Abbiamo tutti paura. Ma guardiamola in faccia questa paura. Affrontiamola. E non confondiamo un problema (le ondate migratorie), con il problema. Perché ci porterebbe lontano se non dalla soluzione, almeno dalla comprensione piena di quello che accade. Che è poi l'unico modo possibile per valutare eventuali soluzioni e gestire il nostro presente. Con o senza paura.