di Luciano Trapanese
Dormono in macchina. Se va di lusso a casa degli anziani genitori. Molti mangiano alla Caritas. Eppure lavorano, ogni giorno. E intascano uno stipendio che consentirebbe di vivere con dignità.
Sono – lo avrete capito – i papà divorziati. Un piccolo esercito. Quasi cinque milioni in tutta Italia. E che da ieri – dopo la sentenza della prima sezione della Cassazione, numero 11504 -, possono ricominciare a respirare (ma è pur sempre una pronuncia e non una legge).
L'Alta Corte ha di fatto tagliato la rendita vitalizia (riconosciuta nel 60 per cento dei casi alle mogli, che hanno in genere anche l'usufrutto dell'abitazione di famiglia). Rendita – o meglio assegno di mantenimento - che consente al coniuge più “debole” di godere dello stesso tenore di vita precedente alla separazione. Un diritto che era stato sancito all'epoca della legge sul divorzio: quasi mezzo secolo fa. Quando il percorso – ancora incompleto – sulla parità tra uomo e donna era agli albori e il ruolo di molte mogli non si discostava spesso da quello di casalinga.
La Cassazione ha invece stabilito che il diritto all'assegno di divorzio «è condizionato dal previo riconoscimento della mancanza di mezzi adeguati dell'ex coniuge richiedente l'assegno o dalla impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive».
In pratica: chi divorzia ridiventa single.
Di certo la sentenza aprirà le porte alla diffusione degli accordi prematrimoniali. Una scelta forse poco romantica, ma che riduce a zero le controversie tra coppie separate.
Restano sullo sfondo tante storie. Spesso drammatiche. E che hanno come protagonisti proprio i padri separati. Quelli con uno stipendio medio, costretti a pagare il vitalizio (spesso un terzo dello stipendio), magari il mutuo e il fitto di un'altra abitazione. Lo immaginate: impresa impossibile.
Carlo ha 45 anni. Divorziato dal 2014. Una vicenda come tante. Che ci tocca da vicino, anche perché Carlo lo conosciamo da sempre. E molti di voi conosceranno altri papà nelle stesse condizioni. O forse, siete anche voi uno di quei papà divorziati.
«In fondo – ci racconta – sono anche fortunato. Vivo con mia madre in un bilocale. Non sono costretto a dormire in macchina. Cosa che capita a tanti nelle mie stese condizioni».
Carlo paga un assegno di mantenimento di quasi cinquecento euro. E altri cinquecento vanno via con il mutuo della casa dove l'ex moglie vive ancora con sua figlia.
«C'è una cosa che mi fa arrabbiare – continua –. Lei non cerca neppure un lavoro. O meglio, se lavora si fa pagare in nero. Ha un compagno, ma non vivono insieme. E solo per non rinunciare al mio assegno. Conduce la vita di prima, frequenta le amiche, la palestra. Si concede le vacanze. Mentre io tiro avanti a fatica. Eppure lavoro tutto il giorno, tutti i giorni. Non rimpiango l'assegno. Quello va anche per mia figlia. Ma è il mutuo che rende la mia vita impossibile. Non sono in grado di ripartire. Di ricominciare da capo. Resto legato a quel matrimonio, anche se il matrimonio non c'è più. E a un vitalizio da versare a una donna che avrebbe tutti i mezzi e le capacità per guadagnarsi da vivere e contribuire con me al pagamento del mutuo».
Lo sfogo di Carlo finisce qui. Non ama parlare della sua storia. «C'è a chi va peggio». E neppure piangersi addosso. Non pensa nemmeno che la sentenza della Cassazione possa cambiare molto («Mica è retroattiva»). Ma almeno – ammette - «qualcosa si muove. Il dramma di tanti papà divorziati è stato ignorato per decenni. In fondo riguarda dei poveri cristi, sconfitti dalla vita e umiliati da una legge anacronistica. Forse l'hanno lasciata così per diminuire il numero dei divorzi. Ma se questo era l'intento, non ci sono riusciti. Hanno fatto solo crescere il numero dei disperati».