Lo Stato vuole censurare il web! Una cavolata. Ma ci provano

Con la scusa delle “bufale” si attaccano anche le opinioni. La libertà di espressione fa paura.

I partiti restano in silenzio. E sbagliano ancora, lasciando a Grillo anche questa battaglia. Il web, con tutti i suoi limiti, è lo specchio del Paese...

di Luciano Trapanese

Il web è emozione, informazione, interazione. Ma è anche – inevitabile – un luogo dove si commettono reati. Dalla pedopornografia (che resta uno degli aspetti più inquietanti), alle truffe on line, per finire alle minacce e alle molestie contro la persona.

Lo confermano i dati diffusi dalla polizia postale campana. Sessantadue persone sono state denunciate per aver trafficato immagini pedopornografiche. 1230 gli indagati per frodi, molestie, violazione della privacy.

Numeri importanti. Che dicono molto, ma non tutto. Chiaro che c'è un mare inesplorato. Abusi non denunciati. Reati non scoperti.

Su quello che accade in rete si è focalizzato il dibattito politico nelle ultime ore dello scorso anno. In particolare per alcune affermazioni rilasciate al Finacial Times dal capo dell'Antitrust, Giovanni Pitruzzella. Una in particolare: «I poteri statali devono garantire che l'informazione sia corretta». Il riferimento è alle bufale in rete, e non ai criminali che utilizzano il web per commettere reati 2.0. Proprio per questo quella frase ha suscitato reazioni forti. Ma anche silenzi sospetti.

Ora, vigilare sui reati non è solo giusto. E' doveroso. Imporre un uso non sconsiderato dei social è sacrosanto (la libertà di espressione è intoccabile, ma non può e non deve sfociare nell'insulto, nell'offesa nella selvaggia violazione della privacy).

Ma imporre un “controllo statale” sul web, e quindi – ci pare evidente – anche sulle opinioni che circolano su internet, oltre che quasi impossibile, puzza tanto di censura globale imposta dai governi. Un autogol.

Si parte dalla infondata certezza che la rete sia il covo dei cosiddetti “populismi”. Il laboratorio dove si fabbricano falsità (ora le chiamano post verità), per favorire certe politiche piuttosto che altre.

Una stupidaggine, naturalmente. Basta un esempio italiano. Il voto referendario sulle riforme costituzionali. Solo un cieco poteva non accorgersi - leggendo post e commenti degli utenti – che il sentimento prevalente era decisamente per il No. Magari declinato in modi diversi: tra chi era contro la riforma e chi contro Renzi (spesso i giudizi si sovrapponevano). E in una percentuale molto più prossima a quella uscita dalle urne rispetto alle previsioni dei sondaggisti.

Qualcuno davvero ritiene che il No abbia vinto per eventuali bufale spacciate sul web? O non è piuttosto vero che la rete e i social hanno semplicemente fotografato in modo palese le convinzioni degli elettori italiani?

Certo, in rete circolano anche bufale (ma – è un esempio - riguardano la Boldrini come Salvini), ed è chiaro che si “concentrano” in particolare sui personaggi al potere. Vi aspettavate altro?

Che sia meglio un web senza cavolate, notizie inventate, falsità e molestie varie, è evidente. Ma che a occuparsi della “scrematura” sia un «organismo statale», è davvero – come scrive Flavia Perina su Linkiesta – da Minculpop 2.0.

Il web ha concesso a tutti la possibilità di esprimere opinioni. Chiaro, alcune sono sconcertanti. Ma è la natura stessa di internet. Che non si può snaturare. E neppure immaginare di controllare. E' uno strumento ancora giovane (rispetto ad altri media, ma inizia ad avere la sua bella età), sarebbe opportuno educare gli utenti a un utilizzo che non produca molestie, offese, gogne pubbliche. Che tuteli la privacy delle persone. Questo sì. Ma un controllo statale, magari esteso anche alle opinioni, ci sembra impraticabile e sconcertante.

E' pure strano che la destra (che impone il termine libertà in ogni simbolo), e la sinistra (che fa altrettanto, con accenti diversi), non abbiano reagito alle parole di Pitruzzella. Lasciando campo libero al solo Grillo. E limitandosi a dire ai 5Stelle: certo che sono contro, loro diffondono bufale... Che è la dimostrazione netta, plastica, evidente, di quanto i partiti si siano scollegati dalla realtà. Così tanto da non capire che una parte del dibattito sociale e politico si alimenta proprio in rete. E che il termometro del Paese si misura anche sul web. Un luogo che bisognerebbe smettere di definire virtuale.