«Mi sputarono in faccia. "Fai schifo", mi dissero. L'inferno ebbe inizio».
Parole dure quelle di Irene. Diciannove anni, napoletana. Vittima di bullismo al liceo.
Una ragazza solare. Gentile. Affabile. Non farebbe male a una mosca.
Tutto comincia tra i banchi di scuola. «Mi volevano bulla. Diventai vittima. Mi spiego meglio - continua -. La mia classe era formata da trenta alunni. La maggior parte ragazze. Un gruppo di loro proveniva dalle zone difficili di Napoli. E come spesso capita, avevano famiglie disgregate. Genitori in carcere. Insomma, situazioni delicate. Forse fin troppo. Mi incitarono a insultare una nostra compagna. Rifiutai. Fare del male non era tra i miei interessi. Dopo quel rifiuto, sono diventata il loro giocattolo».
Ma perché tanto odio?, si chiede Irene. Automatica la risposta. «Torturavano i più deboli, ovvio. Era un modo per affogare i propri dispiaceri. Per nascondere la propria fragilità. Ebbene sì, quell'aspetto da dure, da "fighette della situazione", era una facciata. Facciata che nascondeva pianti, dolori. Lo leggevo nei loro occhi. Già, ogni volta che facevano del male, la si leggeva nel loro sguardo la sofferenza che le divorava. Ne ero sicura. E lo credo tuttora». Afferma.
Tutti i giorni la stessa storia. Campanella alle 8 e 15. «Atteggiamenti di sfida, i loro. Erano evidenti. Ritardo in classe. Zaino inesistente. Gambe accavallate sul banco. Parolacce, bestemmie. Incuranti dei rimproveri dell'insegnate. Nemmeno le continue espulsioni davano risultati migliori - continua -. Stavano in un mondo tutto loro. Ricordo che amavano osservare. Soprattutto, osservare noi compagne di classe. Ci scrutavano. Da capo a piedi. Una sorta di radiografia esterna. E non era bello. Mettevano sempre a disagio. Sono convinta che studiassero le persone per poi capire chi prendere di mira. Sudo freddo solo a pensarci».
Il primo bersaglio fu una ragazza ucraina. «Non conosceva bene l'italiano. Si era appena trasferita. L'azienda di suo padre si era spostata qui. Per giunta, noi parlavamo dialetto napoletano. Dunque, non dialogava molto. Ho cercato più volte di immedesimarmi in lei. Penso a quanto sia stato difficile il trasferimento. Nuova casa, nuova città, nuova lingua. Un cambiamento radicale. I suoi occhi smarriti dicevano tutto. Era molto espressiva. E io, sono molto brava a capire gli sguardi altrui. Penso si sia capito – continua -. Un giorno, durante la pausa, lei era lì. Sola, nell'angolino. Come sempre. Improvvisamente il gruppo di bulle la strattona. "Che fai? Dormi? Ti faremo svegliare noi". La trascinarono in bagno. Mezz'ora. Mezz'ora in quel maledetto bagno. Luogo delle torture. Non so con certezza cosa avvenne. So solo che al ritorno, l'ucraina aveva un occhio nero. Incominciai a preoccuparmi seriamente».
I mesi passano. La situazione peggiora. E stavolta, è Irene la protagonista. «La ragazza straniera veniva importunata di continuo. Fu importunata talmente tanto da scoppiare a piangere nel bel mezzo delle lezioni. Senza spiegare nulla ai professori. Anzi, molti di loro non se ne importavano nemmeno. Che scena raccapricciante - continua -. Dopo un po' di tempo, le carnefici mi coinvolsero. Più volte mi è stato chiesto di insultare la povera ucraina. Io ho sempre rifiutato, prendendo le sue difese. Beh, posso dire di sentirmi orgogliosa di me stessa. Di non essere caduta così in basso. Di non essere stata schiava delle mie insicurezze, delle mie paure. Come hanno fatto loro», racconta.
L'orgoglio serve a poco. Se non a niente. L'attuale diciannovenne diventa vittima di bullismo. «Non avevo eseguito i loro ordini. E per questo dovevo pagare. "Devi scontare la tua pena", mi ripetevano. Frase tipica di chi ha genitori dietro le sbarre. Da una parte le biasimavo. Certo, non doveva essere facile la loro vita. Si capiva. Ma dall'altro lato, ho speso tempo prezioso a far capire loro quanto dispiacere erano in grado di provocare. Ma niente. E' come se non sentissero. Anzi, non volevano sentire. Perché penso che loro, in fondo, un cuore ce lo avevano. Loro in fondo erano consapevoli di tutto il malessere di cui si erano circondate. Ma continuavano ugualmente. Era il loro unico passatempo. Quella, era l'educazione ricevuta dalla famiglia - continua -. Addirittura, sono arrivata a pensare che fossero una sorta di messaggeri terrestri di satana. "Chissà se i pomeriggi si riuniscono in sette sataniche", pensavo».
Pensieri assurdi. Inverosimili, ovvio. Eppure, la disperazione porta anche a questo. «Gli sfottò erano all'ordine del giorno. E non solo. Calci e pugni non mancavano. Ero letteralmente disperata. E, come se non bastasse, i loro insulti alimentavano ancor di più quelli che erano i miei complessi mentali. Ero in sovrappeso. Portavo gli occhiali. L'acne divorava il mio viso. Allo specchio mi vedevo brutta. Ma loro mi facevano sentire orribile. "Ma non ti sei vista? Fai pietà", "Sei una palla di lardo". Oppure: "Se fossi un uomo, non ti bacerei neanche se tu fossi l'ultima donna sulla terra"».
Le provocazioni hanno esiti negativi, ovviamente. «Caddi in depressione. Non volevo più andare a scuola. Non studiavo più. Non ero più la secchiona della classe. Anzi, la mia pagella del primo quadrimestre fu raccapricciante. Una sola sufficienza, storia dell'arte. Già, era l'unica materia che mi faceva stare bene. Storia dell'arte era la mia terapia. Amavo disegnare su tela. Annegavo i miei dispiaceri nei colori. Dopodiché mi sentivo libera. Capace di affrontare persino le mie carnefici. Ma non fu così. Il mio calvario durò tutto l'anno. A oggi, non so dire come io sia sopravvissuta a quello strazio. Forse la speranza in un avvenire migliore. Chissà», dice.
Nel frattempo, Irene passa dal sovrappeso all'obesità. «Ebbene sì, tornata a casa, il cibo era la mia consolazione. Arrivai a mangiare ventiquattro ore su ventiquattro. Non ne potevo più. Non raccontavo nulla a mia madre. Avevo paura dei provvedimenti. Provvedimenti che avrebbero potuto alimentare ulteriori provocazioni. E sinceramente, non ne avevo voglia. Bastava così. Ero fiduciosa nel futuro. Spesso mi domandava "Quando? Quando finirà tutto questo?"».
La risposta arriva a fine anno scolastico. Uscita dei quadri. Bocciatura delle quattro bulle. «Mai stata più felice. Avevo avuto la mia rivincita. Erano state bocciate. Due di loro cambiarono scuola. Non le avrei più riviste. Gioia indescrivibile. Ero salva», dice.
Gli anni a seguire sono stati anni di piccole conquiste. Soddisfazioni personali. «Ora che non ero più vittima di bullismo, potevo riprendere la mia vita. Innanzitutto, mi affidai a un dietologo. Dopodiché , mi gettai a capofitto nello studio. Anche la mia vita sociale migliorò».
Oggi la vita di Irene è completa. «Sono al primo anno di università e ho un fidanzato. Lui si che mi fa sentire bella. Ah, a proposito di bellezza, sono dimagrita ben venti chili. Mi volevano sotterrare, annientare. Volevano vedermi soffrire. Mi volevano cattiva come loro. Ma non ci sono riuscite.
Lo posso finalmente urlare: sono felice! Care bulle, ho vinto io».
Mariagrazia Mancuso
(studentessa del Vivaio di Ottopagine, il corso di giornalismo multimediale organizzato nell'ambito dell'iniziativa scuola/lavoro)