di Carlo Brando
Avevo tredici anni, e per una settimana mi hanno chiuso in manicomio. Non proprio un manicomio, ma una clinica per malati psichiatrici. Che poi è quasi la stessa cosa.
Dovevo stare lì per qualche accertamento. Una serie di elettroencefalogrammi. Roba che oggi si fa in day hospital e in qualsiasi centro medico. Ma erano altri tempi. Anche se non mi sembra tanto tempo fa.
Non avevo problemi mentali, per fortuna. Ma un disturbo legato ai momenti successivi alla nascita. Lo hanno definito trauma da parto. Semplice: per qualche minuto dopo essere venuto al mondo non avevo respirato. Una ostetrica mi ha praticato la respirazione bocca a bocca e dopo un po' ho iniziato piangere e strillare. L'annuncio del mio arrivo sul pianeta Terra.
Da ragazzino quei momenti si sono ripresentati: mi svegliavo di notte, all'improvviso. E mi sentivo soffocare. Proprio come da neonato.
Quello era il mio problema.
Insomma, non ero matto. Eppure mi hanno chiuso lì. Il medico che seguiva il mio caso lavorava in quel posto, aveva convinto i miei che era meglio avermi sotto costante osservazione.
Naturalmente era una cazzata. La clinica intascava soldi pubblici per il mio inutile ricovero.
Si faceva così. Io stavo in manicomio per far guadagnare quattrini a quella struttura.
Ma questo l'ho capito dopo. Molto dopo.
In corsia non c'erano né bambini, né ragazzini. Ho guardato mia madre con delusione. Come avrei trascorso il tempo? «Passa in fretta, non ti preoccupare». Avevo già una certa esperienza di ospedali. Tonsillite (due volte), epatite virale, altri accertamenti. Per l'età ero già un veterano. Per questo non mi sono preoccupato. Ma gli altri pazienti non erano i soliti pazienti. Sembravano tutti un po' strani. C'ho messo un po' per capire che strani lo erano davvero.
Di matti ne avevo già visti. Nel mio quartiere. Inoffensivi, a volte divertenti. Non mi facevano paura. Ma fuori era un noi e loro. Lì, in quella clinica, c'ero io e loro. E gli infermieri.
Nella mia stanza c'era un signore sui 50 anni. Sembrava normale, forse lo era. Ma non ha mai parlato. Eppure non era muto. Perché quando veniva a trovarlo la moglie qualcosa diceva. Non troppo. Sentivo solo un borbottìo, ma lei capiva.
Ero nella stanza, leggevo un fumetto di Max Bunker (forse Alan Ford), sentivo la voce della donna rispondere ai mugugni del marito. All'improvviso è arrivato un giovane, avrà avuto poco più di venti anni. Lo avevo già inserito in cima alla lista dei matti più matti. Entra nella stanza, dice qualcosa di incomprensibile. Poi abbassa i pantaloni del pigiama e mostra alla signora le sue grazie in estensione. Poi scappa via, inseguito da un infermiere che aveva assistito alla scena.
Lei, la moglie del tipo che borbotta, si gira verso di me. Pensavo fosse scossa, almeno un po'. O imbarazzata. E invece, con le due mani rappresenta la lunghezza del materiale esibito dal pigiamato in fuga. E dice: però... Lasciando intendere di essere rimasta colpita da certe dimensioni.
A quel punto l'imbarazzato ero io. Mi sono tuffato nel fumetto. E non ho più sollevato lo sguardo.
Proprio come a pranzo. Nella mensa. Il primo giorno più che mangiare mi guardavo in giro. C'erano quattro anziani, tre persone di mezza età, un paio più giovani e sei, sette donne. Tra loro una più giovane, una bionda. Anche lei si guardava in giro. Poi avrei capito perché.
L'esibizionista era da solo. Fissavano tutti il piatto. Senza parlare. Sentivo il rumore di quelli che tiravano su il brodo. Il masticare rumoroso e nervoso di pezzi di carne dura e fredda.
Io e loro.
Quando anche io, qualche giorno dopo, ho iniziato a fissare il piatto, forse per adeguarmi agli altri, ho iniziato ad avere paura. A pensare cose strane. Del tipo: sono matto anche io. Sono matto da sempre e non me ne sono accorto. Del resto se uno è matto mica se ne accorge?
Da quel momento ho iniziato a parlare e tanto con gli infermieri. Volevo far capire che non ero matto. L'ho chiesto anche ai miei, quando sono venuti a trovarmi. La risata franca di mia madre mi ha rassicurato. Papà ha aggiunto: ma perché deve rimanere qui?
Mi sono sentito meglio. Forse non ero matto.
Era mattina, una psicologa bionda mi ha fatto delle domande. Nel suo studio. Era carina, giovane. Volevo fare bella figura. Far capire che io ero lì solo per gli esami. Ma lei lo sapeva, forse. Ho risposto a tutte le domande scegliendo sempre la formula che mi sembrava più ovvia e normale. Avevo appena visto “Qualcuno volò sul nido del cuculo”. Iniziai a pensare che se sbagliavo risposta mi facevano l'elettroshock. O peggio, la lobotomia. Ero esausto alla fine del test. E nervoso. Lei mi ha sorriso. Ma ho immaginato che fosse tutta scena. Stavo diventando matto?
Ho chiamato a casa: voglio uscire! Altri due giorni, la risposta secca di mamma.
Tieni duro Carlo.
Poi è arrivata la bionda. Avevo i capelli impiastricciati per via di quel maledetto elettroencefalogramma (per la cronaca: tutto in regola...). Il giorno dopo sarei andato via. Lei si avvicina. E' stato il mio primo contatto con il sesso degli adulti.
Ha iniziato a parlare di quel posto. E di quello che faceva lei fuori dalla clinica. Annuivo e non capivo molto. Era un po' confusa. Io più di lei. Poi mi ha passato una mano tra i capelli. «Dovresti lavarli». Si è avvicinata. «Ho bisogno di un uomo». Lo ha detto prima a bassa voce. Poi più forte. Non sapevo cosa fare. Avevo baciato per la prima volta una ragazza l'anno prima. Niente di più. Stava per trascinarmi da qualche parte. Poi è arrivato un infermiere. Uno sui 40 anni. Ha detto: tranquillo, ci penso io. In quel momento ho pensato che la stesse portando in reparto, forse per calmarla. Poi ho immaginato altro...
Il giorno dopo sono venuti a prendermi. Ho detto: mai più. Mio padre ha detto: hai ragione. Si è convinta anche mia madre. Abbiamo cambiato medico.