Politiche culturali, intervengono Sguera e Rapuano

Necessario un lavoro comune e partecipato

Benevento.  

Attenzione sempre alta sul futuro delle politiche culturali in città. Il dibattito non si ferma e sul tema intervengono  Antonello Rapuano (MeetUp “Grilli Sanniti”) e Nicola Sguera (M5S – Benevento).

«Da sempre il dibattito sul ruolo dell’arte e degli intellettuali ha relegato il concetto di cultura in un universo di conflitti ideologici, all’insegna di un dibattito fazioso sulla cultura “alta” e “bassa”, dentro il quale erigere steccati e proporre pregiudizi nei confronti di ciò che è considerato commerciale e nazional-popolare.
Cinquant’anni fa e più chi non leggeva i giornali o i libri, chi non frequentava teatri, concerti, e altri prodotti di consumo culturale correva il rischio di essere emarginato. Tutto ciò portò alla formulazione di politiche di democratizzazione dell’offerta culturale, fortemente sostenute da risorse pubbliche, con l’intento di estendere capillarmente un’offerta accessibile. Nonostante tutto, ancora oggi, ci ritroviamo a dibattere di democratizzazione della cultura e di accessibilità dell’offerta culturale, poiché quelli che non visitano i musei, che non vanno ai concerti, che non vanno a teatro, che non leggono i libri, continuano a essere la maggioranza».

 

Parte da qui il lungo intervento sul tema e prosegue: «Quando un tempo si parlava di cultura “alta” e di “grande artista”, dominava l’idea che solo l’arte fosse cultura e che la cultura si esprimesse solo nei teatri o in pochi altri posti deputati. Oggi la globalizzazione e il digitale hanno cambiato il modello della produzione e della fruizione della cultura; inoltre il paradigma che differenziava la cultura alta da quella definita come cultura bassa è morto. Le politiche culturali che negli ultimi cinquant’anni dovevano democratizzare e favorire l’accesso alla cultura, hanno fallito. La pedagogia che poneva nella storia dell’istituzione scolastica le basi dei saperi e delle competenze, ha realizzato dei processi culturali e di trasformazione sociale necessari ai fini di un allargamento dell’istruzione che doveva essere di massa: una scuola per tutti, che proponeva un’idea di welfare sociale come strumento di crescita anche di tipo egualitario Purtroppo la scuola non è riuscita a conquistare un nuovo ruolo, il cosiddetto ascensore sociale. I dati confermano il numero estremamente ridotto di coloro che usufruiscono dei beni culturali, però assistiamo al crescente fenomeno della rete, e dei nuovi strumenti che permettono, anche a coloro che non frequentano un contesto culturale, di essere inseriti. Nonostante le grandi aspirazioni, la cultura e l’istruzione rimangono due comparti sconnessi, distanti ed elitari. Non basta l’incursione del teatro nelle scuole e il moltiplicarsi di lodevoli iniziative dei laboratori di conoscenza nei musei, ma occorre una convergenza delle politiche della formazione e della cultura.

L’ente pubblico deve costruire le condizioni affinché le persone possano esprimersi e accedere ai saperi; abbiamo bisogno di un’amministrazioni pubblica che favorisca la creazione di percorsi e di opportunità utili per poter fare cultura, o per avvicinarsi ad essa, e che sia capace di confrontarsi con il mercato. Servono sicuramente più risorse, ma non solo di tipo economico: sedi dove poter esercitare, circuiti in cui essere inseriti, politiche fiscali di sostegno, consulenze gestionali e amministrative, accompagnamento nella partecipazione ai bandi europei, norme e regole che rendano più efficiente il contesto in cui si agisce. Una politica attiva di confronto e di scelte, che favorisca un ambiente di alto e diffuso livello culturale.

E veniamo al punto dolente, quello dell’assenza di risorse economiche adeguate, che consideriamo un falso problema: la crisi di oggi è crisi culturale, di orizzonte, di visione, di progettualità futura molto prima che economica.

Il rilancio della cultura passa necessariamente per un progetto culturale di lungo periodo che sappia rilegittimare il ruolo della cultura nella società del terzo millennio. Molte sono le azioni da mettere in campo: sostenere la creatività giovanile, trasformare le biblioteche in presidi di cittadinanza aperte a intessere nuove reti sociali anche nei confronti degli individui in condizioni di difficoltà; costruire un rapporto di continuo scambio tra scuola e musei, orientando questi ultimi a divenire laboratori per gli istituti scolastici; potenziare le grandi istituzioni attrattive per orientare i flussi turistici internazionali e massimizzarne l’impatto economico locale; attivare una progettazione culturale capace di ispirare e guidare dinamiche di sviluppo intersettoriali, dal turismo, all’agricoltura alla rigenerazione urbana; porsi il problema dei nuovi pubblici e dell’avvicinamento al nostro patrimonio culturale di nuovi cittadini; rendere disponibile alla cittadinanza un’offerta culturale differenziata per generi, per tematiche, per livelli di qualità e prezzo.

Esistono alcune forme di produzione di spettacolo, come la trentennale rassegna Benevento Città Spettacolo, un evento finalizzato alla valorizzazione del teatro italiano che, nel corso degli anni, ha perso parte della spinta propulsiva iniziale, ma che rappresentando la storia culturale nella memoria del presente, ci aiuta a produrre nuova cultura.

A questo punto è lecito chiedersi: a cosa serve il teatro? Quali sono gli obiettivi da raggiungere? Sarebbe opportuno che la politica culturale di questa amministrazione si orientasse verso attività finalizzate all’inclusione delle nuove cittadinanze, alla formazione nei confronti dei bambini, all’allargamento dei pubblici: insomma, che si esplicassero obiettivi rispetto ai quali tutti fossero impegnati e rispetto ai quali tutti fossero valutati in maniera coerente.

Bisogna tornare a una politica che stabilisca gli obiettivi dell’attività culturale, e che sia disponibile a contrattarli con gli attori culturali. Credo che questo sia il vero incontro tra l’arte, l’artista e la politica pubblica.
Invece assistiamo a un grottesco rovesciamento: non si trovano degli obiettivi enunciati, non si capiscono le motivazioni nel finanziare un evento tra le molte alternative possibili e allo stesso tempo si esercitano interferenze su precise scelte tecniche.

C’è bisogno di operatori culturali che inizino a pensare alla domanda e non tanto all’offerta. C’è bisogno di un artista che inizi a ragionare come Eugenio Barba, quando cinquanta anni fa andava nei viottoli del Salento pensando che erano quelli i luoghi dove dare vita al “baratto culturale”. Oggi l’operatore culturale deve costruire una compatibilità tra le risorse necessarie, studiare le modalità di realizzazione dei progetti, coinvolgere i pubblici di riferimento, stare attento ai programmi europei e alla loro complessità, garantire la sostenibilità nel tempo della sua azione. Si dovrebbero offrire opportunità, evitando le secche della burocrazia, e dando in cambio risorse preziose: concessioni d’uso, sedi che non vengono utilizzate, locali che hanno bisogno di manutenzione e che sono un costo per chi li possiede e una perdita per la società civile.

Tutto ciò comporta che anche le politiche culturali diventino creative, coraggiose, visionarie, perché serve coraggio per costruire e per valutare ciò che si realizza.

Il programma dell’edizione 2016 di Benevento Città Spettacolo, sotto la direzione artistica di Renato Giordano, ha suscitato un notevole dibattito tra artisti, operatori culturali, intellettuali e politici, ma dovremo aspettare la fine della rassegna per poter esprimere un giudizio estetico da non confondere con il giudizio di valutazione delle politiche culturali. Un concerto, un festival può essere “brutto”, ma produrre quella qualità di progettazione che invece comprende il valore che si attendeva. All’interno della scena culturale, ogni evento contribuirà ad accendere un dibattito nelle persone, portandole ad esprimersi sulla qualità degli eventi, a litigare sul fatto che un’opera sia “bella” o brutta”, perché è compito dell’ente pubblico incentivare coscienza critica. La qualità del singolo evento sarà sempre presente e occuperà il centro del palcoscenico per gli utenti, ma le politiche culturali dovranno avere come riferimento principale la vitalità dell’intero milieu culturale.

Fare cultura non significa aumentare l’offerta a ogni costo, indipendentemente da obiettivi e risultati. Dobbiamo cominciare a ragionare sulla domanda e non sull’offerta, abbandonando un modello errato secondo il quale qualsiasi politica debba necessariamente trasformarsi in un prodotto che andrà venduto e che produrrà tanto pubblico, senza ragionare sui processi. Il fine di una politica culturale pubblica non deve essere per forza il numero di spettatori, ma la creazione di un ambiente culturale in cui la fruizione culturale sia un elemento normale.

Il nostro auspicio è che il Comune diventi un ente non più prevalentemente erogatore ma protagonista forte nella programmazione, in un contesto di governance.

Il M5S anche in quest’ambito vuole lavorare per una modificazione complessiva del terreno d’azione. Da questo punto di vista appare decisiva l’istituzione, promessa dall’assessore Picucci, della Consulta degli operatori turistici e culturali, affinché il lavoro necessario da compiere sia quanto più possibile partecipato».

 

Redazione Bn