Stop stipendi in contanti. Maiella: "Misura palliativa"

Il giuslavorista: "Serve un piano strutturale per ridurre il costo del lavoro"

Benevento.  

La Legge di Bilancio 2018 ha stabilito che dal 1° luglio 2018 non sarà più possibile per i datori di lavoro il pagamento in contanti degli stipendi. La nuova norma servirà a combattere forme elusive dei rapporti di lavoro. Ne abbiamo parlato con Antonio Maiella, già dirigente della Uil Avellino/Benevento. Antonio Maiella è laureato in Consulente del Lavoro e delle Relazioni Sindacali e in Giurisprudenza. Abilitato all’esercizio della professione di Consulente del Lavoro, da circa un decennio si occupa di problematiche legate al mondo del lavoro. Giornalista iscritto all’Albo dei Pubblicisti della Campania, scrive su numerose testate in qualità di esperto in materie giuslavoristiche.

La volontà è quella di arginare il nero, ma lo stop agli stipendi in contanti sarà una misura efficace in tal senso?

Senza ombra di dubbio, il legislatore ha inteso introdurre la piena tracciabilità dell'erogazione degli stipendi, come deterrente al fenomeno del lavoro grigio e del “fuori busta”. E' legge dello Stato e quindi tutti i cittadini hanno l'obbligo di conformarsi a tale direttiva. Dovremo aspettare almeno un biennio per capire in numeri e cifre se questa norma abbia soddisfatto, pienamente, le aspettative dei deputati alla formazione delle leggi. A mio modesto avviso, la tracciabilità obbligatoria è l'ennesimo “farmaco” palliativo somministrato in attesa, si spera, di un piano strutturale di riduzione del Costo del Lavoro, in Italia.

Insomma, una misura positiva ma non sufficiente...

Negli anni, sono state messe in campo soluzioni disomogenee di breve respiro che non hanno sradicato l'annoso problema dell'elevato costo del lavoro. L'idea degli sconti Irpef e sgravi contributivi per ridare un minimo di dignità alle buste paga dei lavoratori dipendenti è sì cosa lodevole, ma deve essere sostenuta soltanto in attesa di un ragionamento serio e condiviso sulla ristrutturazione del tessuto produttivo e industriale su scala nazionale. Ad oggi, però, non abbiamo registrato novità significative. Per amore di verità, debbo poi affermare di non aver condiviso la graduale destrutturazione dei diritti dei lavoratori elaborata nel testo del jobs act.

 

Per quale motivo?


Deformare la struttura portante dello Statuto dei Lavoratori nella pia illusione di ridare appeal al sistema economico del bel Paese, non è stata, a parer mio, la migliore soluzione da offrire ad un sistema economico depresso e ingessato dalle imposte. Ritengo, invece, che si debbano riannodare i fili della storia, ripartendo dalla Concertazione cara al presidente Ciampi, e ridare nuovi ed innovativi stimoli alle Relazioni Industriali. L'economia è spinta, da oltre un decennio, da un salvifico vento liberale e l'Italia grazie al decreto legislativo 276/2003 (c.d. Riforma Biagi) ha iniziato, anni or sono, il suo viaggio, col vento in coda, verso la flessibilità. La sola flessibilità, però, non è stata in grado di sostenere il sistema industriale nazionale attraverso i numerosissimi labirinti del Mercato Unico Europeo. In primis, perché gli addetti ai lavori non hanno calcolato l'angolo di rotta esatto dell'uomo flessibile, e, in secundis, perché i ferventi sostenitori della moneta unica non hanno dato il dovuto rilievo alla messa in sicurezza dei contenuti politici della meravigliosa dichiarazione di Schuman, prima di lanciare la cima verso l'euro. E' mancato il vincolo di solidarietà che doveva dare un contesto armonico alle diverse popolazioni. Difatti, oggi, manca un soggetto unico regolatore che abbia l'autorevolezza necessaria per dirimere i conflitti d'interessi tra gli stati membri anche, se non soprattutto, in materia di politiche del lavoro. E' nota la pratica di alcune imprese multinazionali di localizzare la propria attività in aree (UE) in cui possono beneficiare di disposizioni più favorevoli in materia di lavoro o in cui il costo del lavoro è inferiore. Ecco perché urge riaprire una nuova stagione dedicata alla concertazione nazionale e comunitaria, mettendo al centro della scena “il lavoro”, i suoi diritti, i suoi doveri. 

E in Italia?

Il mercato del lavoro nazionale deve essere inteso come un bene comune, volano di sviluppo all'interno di un sistema democratico evoluto e moltiplicatore di benessere sociale. Mi reputo un sostenitore del liberalismo etico perché appartengo a quella scuola di pensiero che ha elaborato l'idea per la quale gli uomini forniscono migliori prestazioni lavorative quando vengono trattati giustamente, e quando viene loro assicurata un'esperienza lavorativa soddisfacente. E, dunque, uno Stato virtuoso per mettere a punto un piano di sviluppo economico retto da una visione equilibrata delle dinamiche produttive deve porre in essere delle solide precondizioni strutturali a sostegno dell'esperienza lavorativa di ogni individuo, che esso sia un imprenditore o un lavoratore subordinato. Come fare ciò? Riducendo i costi del lavoro e superando il modello conflittuale delle relazioni sindacali, che, ormai, risulta anacronistico, antiquato. Fare impresa, in piena crisi finanziaria, non è esercizio agevole e l'industriale compie atti di quotidiano eroismo: burocrazia, cuneo fiscale, costi del personale schiacciano l'iniziativa economica fino a privare, in tutto o in parte, il cittadino/imprenditore del diritto di esercitare un'attività economica organizzata.

Quindi quale potrebbe essere la ricetta?


Gli organi di Governo, inclusi quelli deputati all'amministrazione locale spalanchino le porte del confronto: datori di lavoro, organizzazioni sindacali, ed esperti giuslavoristi, devono riprendere il dialogo interrotto, riannodando, appunto, i fili della storia al fine di produrre, di concerto con i rappresentanti delle Istituzioni, un nuovo modello gestionale delle relazioni industriali, in materia di salari, contrattazione collettiva, mercato del lavoro e politica fiscale, mettendo come centro di gravità permanente l'uomo, attore economico al servizio della società. Si punti, infine, sull'industria e non sulla finanza esasperata ed esasperante.

                                                                                                                                                                                                                                  Crisvel