Ha chiesto, come non capirlo, di non tornare in quella casa. Non vuole metter piede tra quelle mura, quelle pareti diventate testimoni muti della sofferenza che per trentotto lunghissimi anni ha condiviso con il figlio Domenico, disabile dalla nascita. Sabato lo ha ucciso, ora Luigi Piacquadio, 72 anni, di Montesarchio, continua a ripetere che anche la sua esistenza dovrà terminare. Aveva provato a farlo subito dopo aver accoltellato la persona alla quale teneva più di tutto, non c'era riuscito. Ha ribadito la sua determinazione al gip Roberto Melone, che lo ha interrogato in carcere alla presenza dell'avvocato Claudio Barbato. E ha poi deciso che resti ricoverato nel reparto sanitario della struttura di contrada Capodimonte, dove è sotto vigilanza.
Incrociando lo sguardo del giudice, l'ex segretario comunale in pensione si è riportato a quanto aveva riferito nelle ore successive al dramma al sostituto procuratore Maria Gabriella Di Lauro, titolare delle indagini affidate ai carabinieri. Ha ripercorso, precisandoli, soprattutto gli ultimi dieci giorni, passati a pensare e ripensare a ciò che sarebbe accaduto a Domenico una volta rimasto solo. Non riusciva a togliersi dalla mente le immagini di un servizio televisivo sullo stato in cui vengono mantenuti, in certe strutture, coloro che non sono autosufficienti. Come il suo Domenico.
Quelle scene avevano profondamente inciso sulla sua condizione, al punto da non farlo dormire. Lui non sarebbe stato al suo fianco per sempre, per questo era tormentato dalla paura di ciò che il futuro avrebbe riservato al figlio. Ecco perchè, ma solo sabato mattina e non prima, si era convinto che tutti sarebbero stati più tranquilli se lui avesse armato la sua mano e l'avesse rivolta contro Domenico. Lui stava dormendo quando lo aveva colpito all'altezza del fianco sinistro, del cuore. Un gesto disperato, “un gesto d'amore”, aveva detto. Piangendo come solo un genitore può fare.
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