Intralcio alla giustizia, stalking e lesioni: sono le accuse, contestate a vario titolo, per le quali il gup Loredana Camerlengo, in linea con la richiesta del sostituto procuratore Giulio Barbato, ha rinviato a giudizio sei persone coinvolte in una inchiesta centrata sulle minacce ai familiari di un teste nell'indagine sull'omicidio di Cosimo Nizza, per costringerlo a ritrattare le sue dichiarazioni.
Il processo partirà il 23 marzo del prossimo anno, è stato disposto per Giuliana De Nunzio, 64 anni, Raouda Bent Bejaoui 59 anni, Annarita Taddeo, 31 anni, Giovanni Fallarino, 65 anni, Nazzareno Taddeo, 60 anni, Luca Manco, 45 anni, difesi dagli avvocati Claudio Fusco, Francesco Fusco e Vincenzo Sguera.
Si tratta di una inchiesta del pm Flavia Felaco e della Squadra mobile che nel luglio del 2019 era sfociata in una ordinanza di custodia cautelare ai domiciliari nei confronti delle tre donne, poi tornate in libertà, con il divieto di avvicinamento all'abitazione ed ai luoghi abitualmente frequentati dalle persone offese – sono assistite dall'avvocato Antonio Leone – dopo l'interrogatorio di garanzia. Un appuntamento nel corso del quale avevano ammesso le loro condotte, ma le avevano giustificate con motivi di astio precedenti, non con la volontà di intimidire quelle persone per costringere un loro familiare a rimangiarsi ciò che avevano affermato nell'inchiesta sul delitto Nizza, ucciso a colpi di pistola il 27 aprile del 2009 sotto la sua abitazione al rione Libertà.
Un omicidio per il quale, il 5 marzo del 2019, era stato arrestato Nicola Fallarino (avvocati Vincenzo Sguera e Domenico Dello Iacono), 37 anni di Benevento, che il 26 marzo del 2021 è stato condannato all'ergastolo perchè ritenuto uno degli autori, con una sentenza della Corte di assise impugnata in appello – a metà giugno la decisione di secondo grado - dalla difesa.
Le tre donne – De Nunzio è la mamma di Fallarino, Taddeo la compagna e Bejaoui sua madre – avevano sostenuto che la conflittualità era nata ben prima dell'arresto di Fallarino, dopo la fine di un rapporto, che durava da anni, di amicizia e anche di condivisione della gestione di due bar. Avevano dunque respinto gli addebiti prospettati, le minacce, con messaggi via whatsapp e telefonate (“Tuo figlio è un infame...”), le aggressioni e un raid in un locale, di cui sarebbero rimasti vittime i congiunti del testimone.