E' una vicenda drammatica che all’epoca aveva profondamente turbato l'opinione pubblica. Definita in primo grado, il 4 giugno dello scorso anno, con quattro condanne per omicidio e rapina (una quinta solo per rapina). Le aveva stabilite con rito abbreviato il gup Loredana Camerlengo per le persone coinvolte nelle indagini condotte dai carabinieri del Reparto operativo e della locale Stazione sulla tragica fine di Maria Coppola, la 72enne di San Giorgio del Sannio che era morta all’ospedale Rummo il 18 febbraio del 2014, dieci giorni dopo essere stata aggredita e picchiata nella sua abitazione in via Bocchini. Oggi, con la relazione del giudice a latere Vittorio Melito (in passato a Benevento), l'avvio del processo d'appello, dinanzi alla Corte di assise– proseguirà il 30 novembre –, contro quella sentenza con cui il giudice aveva inflitto per omicidio volontario pene diverse -ridotte di un terzo per la scelta del rito - in base al livello di responsabilità che aveva ritenuto accertato e all’esistenza di un concorso tra gli imputati.
Un concorso non anomalo, come aveva prospettato, nella sua requisitoria, il pm Nicoletta Giammarino, titolare dell’inchiesta. Nessun dubbio: esclusa la possibilità di una diversa qualificazione dell’imputazione (da omicidio volontario a preterintenzionale), provato il nesso di casualità tra le lesioni subite dalla poverina e la successiva morte. Maria Coppola era stata percossa nel letto, poi trascinata a terra, dove la sua testa era stata sbattuta sul pavimento. Di qui i 20 anni a Daniel Constantin Pandelea, 23 anni, rumeno, residente a San Giorgio del Sannio, indicato come colui che avrebbe colpito la pensionata; i 17 anni per Giuseppe Mottola, 26 anni, di San Giorgio del Sannio, ritenuto l'ideatore del colpo. E ancora: 16 anni per Luigi De Vizio, 26 anni, di Torre Le Nocelle, in provincia di Avellino, che aveva preso parte all'incursione nella casa; 14 anni e 8 mesi per Alfredo De Capua, 32 anni, di San Giorgio del Sannio, che avrebbe fornito le informazioni sul 'bersaglio' del raid, difesi dagli avvocati Michele Senese, Vincenzo Regardi, Antonio Leone, Agostino Guarente e Vincenzo Todesca. Nella stessa occasione erano stati decisi 4 anni per rapina per un altro rumeno, assolto dall'accusa di omicidio, ed erano state stralciate altre posizioni per il furto e l'incendio dell'auto utilizzata.
In primo grado, come si ricorderà, le difese avevano contestato la ricostruzione operata dell’accusa, opponendo alle conclusioni della dottoressa Monica Fonzo, consulente del Pm, quelle di un proprio specialista, il dottore Emilio D’Oro. La morte – avevano sostenuto – è stata causata da un’infezione batterica; dunque, nessun rapporto tra il decesso ed il trauma cranico riportato, peraltro dovuto ad una caduta. Secondo i legali, l’anziana era stata schiaffeggiata e legata al braccio destro con il cordino, ma era riuscita a liberarsi. Si era alzata e svestita, quindi era caduta, battendo la testa. Gli imputati – avevano continuato - “non avevano alcuna volontà, alcun intento di uccidere. Volevano soltanto mettere a segno un furto. Non c’era in loro alcuna consapevolezza che l’unico schiaffo dato alla donna l’avrebbe portata al decesso.
Ecco perché – avevano concluso – “manca la prova certa”. Parole che non avevano incrinato le convinzioni del giudice rispetto alla versione dei fatti disegnata da investigatori ed inquirenti. Pandelea aveva aggredito la 72enne, De Vizio aveva rovistato, poi era fuggito quando aveva visto l’altro usare violenza. Doveva essere un furto che nei piani avrebbe dovuto fruttare un paio di chili di oro e 30mila euro in contanti, non un anello e due orecchini. Un raid ispirato e messo a punto, nell’ordine, da De Capua e Mottola.
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