Ciampi ad Avellino: non perdete tempo. Ma la città s'è fermata

Il presidente emerito si è spento oggi. La storica visita per l'inaugurazione del Gesualdo

Era una Avellino diversa e piena di speranze. Che sono state state tutte tradite

Avellino.  

 

di Luciano Trapanese

Era il primo ottobre del 2002, quattordici anni fa, quando Carlo Azeglio Ciampi, allora presidente della Repubblica, arrivò ad Avellino. Un bagno di folla. Che coincise con l'inaugurazione del Teatro Gesualdo, all'epoca una struttura che avrebbe dovuto simboleggiare la definitiva rinascita del capoluogo irpino.

Il presidente emerito si è spento oggi, a 95 anni. E' stato un Capo dello Stato molto amato (insieme a Sandro Pertini). Capace di ridare orgoglio, vitalità, emozione ad un Paese che già all'epoca viveva momenti di grande difficoltà e una continua fibrillazione politica.

La ricordiamo tutti quella sua visita ad Avellino. Quel momento solenne che, a più di venti anni dal terremoto, avrebbe dovuto segnare la definitiva rinascita di una terra spezzata dalla furia del sisma.

Fece i complimenti a tutti il Presidente, «per aver costruito questo bellissimo teatro che è un esempio di come, in un periodo relativamente breve, un paio di decenni, una provincia quasi esclusivamente agricola possa diventare provincia industrializzata, potenziando e specializzando, al tempo stesso, anche le sue produzioni agricole».

Erano altri tempi. Carichi di fiducia e speranze. L'Italia e l'Irpinia in particolare non avevano ancora conosciuto la gravissima crisi di questi anni. E la difficile, complessa e lunga ricostruzione non aveva ancora mostrato i suoi lati peggiori. Compreso quello della fallita industrializzazione. Ma questo, nel 2002, il presidente non poteva ancora saperlo.

«A quel disastro della natura – aggiunse Ciampi – la società irpina ha dimostrato di saper reagire. Ciò che è avvenuto ad Avellino può e deve avvenire in tante altre aree del Mezzogiorno, dove ve ne sono le condizioni: in primo luogo una gioventù ben preparata e accettabili condizioni di sicurezza».

Era – e restano – i due presupposti cardine per imporre lo sviluppo. Ma non solo. All'epoca Avellino era anche pesantemente condizionata dalla malavita organizzata. Erano gli anni del clan Partenio, della faida tra Cava e Graziano, dell'ascesa in Valle Caudina del clan Pagnozzi. Per questo Ciampi si soffermò anche sulla lotta alla criminalità organizzata. «Una battaglia che è vincente se gode del convinto appoggio della società locale. Deve essere chiaro a tutti quanto sia alto il costo della criminalità per la collettività e i singoli cittadini. Le organizzazioni di camorra o di mafia sono il peggior nemico per il benessere della gente comune e della crescita delle occasioni di lavoro. La malavita organizzata – aggiunse il presidente – è una delle cause determinanti dei livelli di disoccupazione ancora intollerabilmente alti nel Mezzogiorno».

Il Capo dello Stato, ricordando anche le parole di Francesco De Sanctis, Pasquale Stanislao Mancini e Guido Dorso concluse che «è necessario favorire la consapevolezza di un continuo ammodernamento, al fine di realizzare la rivoluzione meridionale».

Ciampi parlò poi della necessità di «potenziare le infrastrutture e superare le antiche lentezze burocratiche», ammonendo: «Non c'è tempo da perdere. Alcune disponibilità esterne, in prospettiva, possono ridursi. L'allargamento (all'epoca non ancora avvenuto ndr), dell'Unione Europea, un obiettivo storico che perseguiamo con convinzione, includerà nell'Unione anche Paesi a più basso livello di reddito e quindi bisognosi di aiuti che assorbiranno risorse del bilancio comunitario».

Il Presidente della Repubblica tracciò anche una sorta di road map, una serie di provvedimenti e di scelte da adottare per consacrare in via definitiva lo sviluppo di Avellino e della sua provincia: «E' necessario migliorare le condizioni locali, le potenzialità per mettere a frutto le risorse esistenti e creare delle nuove. Le politiche di agevolazioni alle attività produttive quando sono ben indirizzate, riescono a produrre gli effetti positivi auspicati».

Era sindaco Di Nunno. Il sindaco della speranza, quello che aveva imposto una visione concreta e possibile della città di domani. Il primo cittadino che aveva innescato – negli stessi anni del primo De Luca a Salerno – un processo che avrebbe dovuto consegnare agli avellinesi una città moderna, verde e proiettata nel futuro. Così non sarà. Di Nunno è morto senza realizzare quel sogno. Oggi anche Ciampi, che nei giorni di quella visita aveva respirato l'aria di una Avellino in piena trasformazione, se n'è andato per sempre. Resta l'emozione di quell'incontro. E le sue parole. Rimaste – e non certo per suoi demeriti – lettera morta.

Avellino ha fatto passi indietro. Ci rimane quello che poteva essere e non è stato. La triste e lunga lista delle occasioni perdute. Il presidente aveva avvisato: «Non c'è tempo da perdere». Se n'è perso tanto. Troppo. E si continua.