Le capuzzelle e quell'uomo solo nella piazza

Storia di una coerenza capace di superare i confini della realtà

Avellino.  

Ogni mattina, prima di uscire di casa, se le guardava una a una e le spolverava. Erano le capuzzelle di tutti quelli cui aveva giurato fedeltà eterna o quelli che era riuscito a far diventare qualcuno al posto suo.

Le cornici, quelle più importanti, le aveva dedicate ai segretari di partito, ai leader che l'avevano ispirato: uomini dal pensiero libero e forte finché lo accontentavano, persone che non rappresentavano più le stesse parole d'ordine quando alla fine erano riuscite a calcolarne, con l'approssimazione nanomillesimale necessaria, il peso specifico delle sue rarissime (o in via d'estinzione) sinapsi politiche.

Il vero salto di qualità lo aveva fatto passando dallo stato gassoso dell'impegno presso il Ministero dell'Istruzione (poi dicono che la scuola al sud è l'ultima in Europa) a quello liquido della guida provinciale d'una morente Democrazia cristiana. Lui ci aveva messo poco a darle il colpo mortale, salendo a bordo del Partito Popolare. E qui aveva giurato di aver trovato, finalmente, la casa giusta che lo rappresentava e che non avrebbe più cambiato.

Poi, però, Mancino e De Mita, con il grande patto di Lerici, avevano aderito alla Margherita. Lui non aveva capito ma s'era subito adeguato e aveva giurato che sì, quel fiore lo avrebbe coltivato per tutta la vita.

Poi Veltroni, l'antesignano dei rottamatori, a De Mita non lo aveva riproposto e lui aveva appeso la sua prima capuzzella, dicendosi manciniano della prima ora e Veltroniano convinto. Per premio gli avevano dato la pazziella dell'Alto Calore. E lui se l'era giocata alla grande: tutti erano stati promossi dirigenti e nessuno leggeva più le bollette. Tutti coordinavano: il meccanico spiegava all'operaio, l'operaio indirizzava l'impiegato, l'impiegato consigliava il dirigente, i sindacalisti puntavano l'orizzonte per distrarre tutti dal lavoro vero. Aveva creato un eden. Quando l'avevano eletto mal consiglio regionale tutti avevano pianto. Quelli di palazzo Santa Lucia, intendiamo.

Prima che potesse vedere il Senato aveva atteso due turni senza passare dal via, perché Maccanico lo teneva in catene. Poi erano venuti i giorni di Franceschini. E a lui aveva giurato fedeltà. 

Lì, a palazzo Madama, certi professoroni gli avevano spiegato che si poteva anche assumere una forma fluida: lo aveva detto anni prima un che si chiamava Zigmunt. Lui non aveva capito ma subito era sgusciato da un'altra parte quando aveva intuito fino in fondo le ragioni dello stare insieme a Bersani, al quale aveva giurato tutta la fedeltà e l'appoggio possibili.

Poi al Senato gli avevano preferito Capacchione e allora s'era deciso. S'era dichiarato renziano non della prima ora, non della seconda ora ma della controra. Tra una pennichella e l'altra aveva cullato l'idea di tornare almeno a Montecitorio.

Macché. Tante capuzzelle aveva appeso alla parete quante capate gli avevano rifilato i suoi colleghi di partito che (caso strano?) a lui avevano giurato fedeltà eterna.

C'erano impronte indelebili davanti palazzo Caracciolo, incornate al centro direzionale di Napoli, testate sui tavoli di centrosinistra. Persino a via Tagliamento, dove lui, sì proprio lui, aveva portato De Blasio, la Lengua e tanti altri, c'erano pareti a lui omaggiate. E altarini dove aveva santificato Martina (il reggente) e la discontinuità necessaria per rimettere in piedi il Pd e avviare un progetto-programma. Lui aveva pazziato con il consiglio comunale di Avellino.

Aveva scambiato il quadrumvirato con i compagni di scopone. Tra una nomina all'Asl e un amico al Moscati, persino sulle cucine del Rubilli e sui terreni lasciati ai vecchietti aveva voluto dire la sua.

E Avellino era diventata, anno dopo anno, una città sempre migliore, vivibile.

Quindi, come Siddhartha, ecco una nuova illuminazione. E si era spinto con un ultimo, ma proprio ultimo, giuramento: era Zingaretti l'uomo che incarnava più di tutti le sue aspirazioni. Prometteva che l'avrebbe amato per sempre. Mentre camminando, solo solo, ripeva tra sé e sé: “La piazza è mia, la piazza è mia”.

E tutte le capuzzelle ridevano di lui.