Qualche tempo fa ho avuto il piacere di leggere un racconto propostomi da uno dei poeti dialettali della Grande Madre, Liberatore Francesco Memoli di Vicenza, per gli amici Tiruccio, Tiro, Toruccio e via dicendo. L’autore, data la sua grande passione per il teatro, ne voleva fare una commedia semiseria. Giocando sempre sul filo dell’ironia gli suggerii di scrivere un racconto lungo in cui narrasse la sua strana avventura di uomo in cerca di una identità in un paese natio dall’identità equivoca. In verità, in questo testo, cui ebbi poi l’onore di fare la presentazione, lessi uno spaccato di storia della nostra povera terra e dell’ancor più povera gente che l’ha abitata. Inseguendo la sua identità, Tiruccio, come affettuosamente mi piace chiamarlo, rappresenta il figlio non paco di un territorio spopolato da continui flussi migratori dettati dall’assenza di pane e soddisfazioni. Fanciullo dell’immediato dopoguerra, risentì del nervosismo che il padre aveva riportato a casa alla fine della seconda guerra mondiale.
Anni duri di ricostruzione e spopolamento, di terra avara e matrigna, anni in cui i signori dominavano ancora la scena politica nei paesini dell’entroterra, ma anche anni di speranza, di nuovi orizzonti mai immaginati, di nuove opportunità oltre le anguste cime di Ariano e di Trevico. Era questo lo scenario storico in cui il giovanetto cresceva e comprendeva che non era la zappa il suo futuro, troppo pesante per il suo gracile fisico, troppo riduttiva per la sua mente sognatrice e creatrice. Così, mosso dal desiderio di migliorarsi, seguì gli studi possibili mentre cercava di mettere in tasca qualche spicciolo per il sostentamento. Anche lui inseguì il sogno americano di Hollywood e gli fu pure concessa una opportunità ma il padre, ovvero la povertà, spezzò sul nascere ogni sogno di successo. Anzi, fu l’occasione per infierire su di lui con una punizione esemplare, decise di domarlo attraverso la disciplina militare: fece richiesta per lui di entrare nell’arma dei carabinieri.
Per Tiruccio fu una punizione perché aveva sempre il suo sogno in tasca e le tentava tutte per poterlo realizzare. Svolse ogni genere di mestiere, in ogni dove, migliorandosi sempre ma mai era soddisfatto. Intanto, parallelo al sogno, inseguiva la sua identità che si dissolveva ogni qualvolta avvertiva la variazione delle note che componevano il suo nome. Il suo nome, diverso per ogni persona, in ogni situazione, quasi come la sua Pulcherino, più volte storpiata per lo scherno dei paesi limitrofi, quel “Villanova” non è stato mai accettato più di tanto, ancora oggi qualcuno si diverte a chiamarla “Porcaria”. Questa condizione di squilibrio riscontrata nella sua terra e nella propria onomastica hanno condotto l’autore in mille luoghi, per lavoro ma anche per irrequietezza, sempre in cerca di qualcosa in più da sperimentare, da raggiungere, da realizzare.
Il racconto di Tiruccio riporta ai tanti vissuti di giovani partiti contro voglia, ma per necessità di sfuggire alla miseria di una terra che non aveva pane per troppi figli. Riporta alla mente un altro grande conterraneo, Fedele Giorgio, lo stesso malumore nel descrivere “Le stellette che sopportammo”, la stessa fuga forzata dalla sua sant’Andrea, da una terra che non dimenticherà mai sebbene amato e benvoluto in quel di Teramo. Così Tiruccio sopportò le angherie dei superiori ma abbraccio fraternamente le nuove amicizie, colleghi, ragazze conosciute nei nuovi paesi toccati e infine una compagna con cui dividere i suoi giorni. Oggi la storia di Tiruccio è diventata un bel testo in una elegante veste tipografica, è stato acquistato dal comune di Torino ed è entrato nelle case dei fratelli del Nord. Grazie alla narrazione di Tiruccio, anche gli Italiani d’oltre Po’ potranno conoscere i sacrifici e insieme la tenacia della gente irpina.
Franca Molinaro