Le mani sulla cinepresa, lo stile e il rigore di Rosi

Tempi moderni

Il regista napoletano, recentemente scomparso all’età di 92 anni, ha fondato tutto il suo lavoro sull’impegno civile, è stato per il cinema quello che Sciascia ha rappresentato per la letteratura del Novecento

Avellino.  

Per la mia generazione fare cinema significava fare politica. Con i nostri film volevamo far crescere la coscienza sociale». Francesco Rosi è riuscito a dare un’impronta particolare alla cinematografia italiana, a imporre una visione rigorosa degli avvenimenti, ad andare oltre le apparenze, a soffermarsi sui dettagli, a spingersi nei meandri dei fatti e dei misfatti, negli anfratti di tanti misteri nazionali, nelle zone grigie dove si incontrano e si alleano politica e malaffare, potere e mafia, laddove germoglia e si impone l’economia criminale. Il regista napoletano, recentemente scomparso all’età di 92 anni, ha fondato tutto il suo lavoro sull’impegno civile, è stato per il cinema quello che Sciascia, per esempio, ha rappresentato per la letteratura del Novecento.

 

Fra i due, tra l’altro, era nata anche un’amicizia sincera e prolifica, culminata nella realizzazione del film “Cadaveri eccellenti”, basato su “Il contesto”, uno dei romanzi più significativi e inquietanti dello scrittore siciliano. La storia, sia per come si dipana nel libro che per come è stata sceneggiata, è dotata di una visione profetica che la rende un racconto senza tempo, una “House of cards” degli anni ’70, concepita prima che ammirassimo Kevin Spacey nei panni di Frank Underwood. Il contesto/Cadaveri eccellenti è una perfetta raffigurazione della degenerazione del potere politico nel momento in cui si fa ammaliare dalle lusinghe dell’affarismo malavitoso, nell’istante in cui si lascia sopraffare e assorbire fino a realizzare un intreccio inestricabile dove tutto si confonde e diventa impossibile distinguere i tutori della legge dai fuorilegge, il lecito dall’illecito.

 

Lo scenario allarmante evidenzia tutte quelle distorsioni del sistema che negano i principi democratici, rovesciano lo Stato di diritto, minacciando la libertà dei cittadini, calpestano i diritti individuali. Tutte cose che, in un futuro non troppo remoto, si sono poi puntualmente realizzate e che, oggi, ancora costituiscono un male endemico, subdolo e inestirpabile. Non a caso, Sciascia rivelò un certo disagio dopo la conclusione del romanzo: «Ho cominciato a scriverlo con divertimento, l’ho finito che non mi divertivo più». Rosi, dal canto suo, riuscì a dare una forma cinematografica a tutta quella materia incandescente, specificando precisamente “il contesto” politico-sociale - allorché Sciascia aveva preferito la metafora e riferimenti astratti, soltanto assimilabili per analogia alla realtà italiana del tempo - e conservando l’equilibrio stilistico a cui tanto teneva. «L’arte dell'immagine si manifesta soprattutto attraverso l'equilibrio delle forme».

 

E di arte ce n’era in abbondanza nei film di Rosi che erano un perfetto concentrato di forma e sostanza, stile e rigore. A cominciare da “Salvatore Giuliano” o “Le mani sulla città”, pellicole nelle quali già aveva sviluppato le tematiche poi approfondite con “Cadaveri eccellenti”, dimostrando una straordinaria capacità di saper maneggiare abilmente gli strumenti del film d’inchiesta e di servirsene per denunciare, puntare l’indice, scuotere le coscienze intorpidite e le menti assopite. “Salvatore Giuliano” è l’emblema di quelle torbide trame che coinvolgono apparati dello Stato, politica e mafia.

 

La parabola del famoso bandito è quasi una figura allegorica che incarna l’involuzione del Paese. La cronaca si trasforma in un affresco storico che evidenzia le collusioni e i punti oscuri di una vicenda paradigmatica, simbolo tragico dell’Italia del secondo dopoguerra. “Le mani sulla città”, scritto insieme all’amico Raffaele La Capria, è probabilmente il suo film più conosciuto, quello che gli valse il Leone d’oro a Venezia. «I personaggi e i fatti qui narrati sono immaginari, è autentica invece la realtà sociale e ambientale che li produce», è l’avviso per gli spettatori prima che il film abbia inizio.

 

Rosi scelse questa formula per introdurre i fotogrammi di un lavoro formidabile, audace, dirompente. La macchina da presa scandaglia lo scempio edilizio che si consuma nella Napoli degli anni ’60, il modo spregiudicato di aggredire il territorio, le strade, le colline, i vicoli per alimentare speculazione e lucro privo di scrupolo, il tutto con il complice benestare delle istituzioni cittadine. «Il denaro non è un'automobile, che la tieni ferma in un garage: è come un cavallo, deve mangiare tutti i giorni», dice il costruttore, poi consigliere comunale, e infine assessore all’edilizia, Edoardo Nottola, interpretato da un superlativo Rod Steiger, esempio lampante dei nascenti conflitti di interessi, un antesignano dello sfascio legislativo e dell’indecente depredazione delle risorse del Paese.

 

Altro film molto scomodo è “Il caso Mattei”, la vicenda del Presidente dell’Eni (a cui ha dato corpo e anima un magistrale Gian Maria Volontè), fautore di una nuova politica energetica nazionale, sganciata dalle sette sorelle petrolifere americane, che scomparve in circostanze più che misteriose a seguito dello schianto dell’elicottero con cui era decollato da Catania e che precipitò nelle campagne vicino Pavia, mentre stava ritornando a Milano (in effetti, la magistratura, a diversi anni di distanza, pur non rintracciando i colpevoli dell’attentato, ha appurato che l’elicottero “venne dolosamente abbattuto” a causa dello scoppio di una bomba da 150 grammi di tritolo attivatasi nella fase di atterraggio).

 

Tra l’altro, Rosi, nell’estate del 1970, prima di iniziare le riprese, chiese la consulenza del giornalista, Mauro De Mauro, per la sue proverbiali doti da investigatore. De Mauro si dette subito da fare, lo coadiuvò nella ricostruzione delle ultime ore di vita di Mattei setacciando documenti e raccogliendo importanti testimonianze da personaggi di primissimo rilievo fino a quando non venne rapito sotto casa sua, a Palermo, e scomparve nel nulla. Un elemento che aggiunge un ulteriore enigma a una vicenda che ha tutti i contorni della cospirazione. Ecco perché Rosi occupa un posto privilegiato nell’Olimpo della cinematografia nazionale, accanto ai più grandi.

 

I suoi lavori possiedono severità e armonia, sono capolavori da tramandare di generazione in generazione, prima che se ne dissolva il ricordo, prima che ci si rassegni al cinema come sciocco intrattenimento, prima che mani interessate cancellino la storia recente del nostro Paese.

Gianluca Spera