Nusco - America, il culto degli emigranti

Tre storie emblematiche, tra gli Usa e l'Irpinia

Perché il culto del paese di origine, come osserva poeticamente Anna Lomax, è “un rinnovamento dello spirito. La propria terra non è solo un punto sulla carta geografica, ma rappresenta la memoria”

Avellino.  

Sembra appena sbucato da un paese del Sud Italia quello sparuto ma volitivo corteo di devoti che come d’improvviso si materializza tra le strade di New York, portando in processione la statua di un santo in un quartiere della Grande Mela. E le sagome dei grattacieli, con l’Empire State Building sullo sfondo, conferiscono all’istantanea non solo il fascino e l’emozione di un’opera d’arte ma anche la profondità di un saggio antropologico sull’emigrazione italiana in America.

 

Perché, certo, il culto delle tradizioni è da sempre il tratto più riconosciuto e distintivo nel “way of life” degli italoamericani, ma forse nessun documento potrebbe restituirci, con altrettanta efficacia di questa foto di Tony Vaccaro, il trait d’union tra due mondi, e tra passato e presente, che le comunità dei nostri migranti tenacemente sostengono. Perfetta, questa immagine, per la copertina del libro che lo studioso Paolo Graziano ha dedicato allo scrittore italoamericano oggi più celebrato: John Fante back home. E come John Fante, anche quei padri di famiglia che fanno da corona alla statua di Sant’Amato da Nusco sembrano idealmente diretti verso la casa degli avi, in quel paese di montagna dell’Irpinia che nel cuore e nei ricordi non hanno, in realtà, mai abbandonato. Come dimostrano tre originali ed emblematiche storie di nòstoi.

 

“MIA MADRE VENIVA DA NUSCO” “Il mio nome è Frank Scobbo. Entrambi i miei genitori sono nati e cresciuti in Italia. Mio padre giunse a New York nel 1909, all’età di 17 anni. (…) Nove mesi dopo la perdita della sua prima moglie, da un paese dell’Italia, Nusco, venne mia madre, Teresa Caprariello. Era il 1935. Dieci mesi dopo mio padre la chiese in moglie; lei acconsentì.

 

Si erano conosciuti da circa tre mesi. Nello stesso anno nacque mia sorella Maria, e io nel 1939”. Frank Scobbo non ha smarrito neppure un dettaglio nell’archivio dei ricordi di una vita. Deformazione professionale, forse, di un poliziotto vecchio stile e di lungo corso, per 27 anni commissario a Port Washington, New York, ma anche devozione tipicamente meridionale alla famiglia, da “marito devoto e padre orgoglioso di 7 figli”, come si definisce nelle note biografiche di My mother came from Nusco, l’agile libro di memorie pubblicato nel 2006. Una vita interamente spesa, per dirla con parole sue, a “ricompensare il Paese che gli ha dato tanto”, forte dei sacrifici e dell'insegnamento dei suoi genitori, dell'affetto dei paisà, come “Compà Itanno e Commà Gemma”, della rigorosa fedeltà alle usanze di Nusco di mamma Teresa, a partire dalla cucina: “Mia madre cucinava pasta e fagioli tutti i venerdì sera, e la domenica spaghetti e ragù”, Immaginarsi la gioia, nel primo viaggio in Italia (1971), nello scoprire Nusco così come gliel’avevano descritto: “Ci avevano detto che il paese non era cambiato per niente negli ultimi cent’anni. Fu meraviglioso vedere la piccola casa in pietra dove era vissuta mia madre. Adesso era diventata una stalla”.

 

Nel paese della madre gli capiterà anche di conoscere una lontana parente, una Caprariello, ma soprattutto le notizie anagrafiche della sua famiglia: “L’impiegato tirò fuori dei voluminosi registri, dove c’erano i dati di mia madre, di sua sorella Maria e del loro fratello Antonio. I documenti mostravano le date di quando tutti loro avevano lasciato l’Italia per emigrare in America”.

 

IL SUONATORE DELL’ONTARIO “Il sig. Pepe nacque circa 79 anni fa da una famiglia di contadini di Nusco, in provincia di Avellino, nel cuore dei monti dell’Irpinia. Faceva il ferroviere in Italia, venne in Canada nel 1951 e qui, fino alla pensione, lavorò nelle costruzioni”. Una vita come tante, quella di Vito Pepe, nell’emigrazione italiana del dopoguerra, se non fosse per le doti artistiche di questo operaio trasferitosi in un quieto distretto di St. Catherines, nell’Ontario, vicino alle cascate del Niagara.

 

Doti musicali, per la precisione, tanto da suscitare l’interesse di una studiosa come Anna Lomax, che ne traccia un profilo in un saggio del 1986 su “La Critica Sociologica” dedicato alla presenza in America della musica folkloristica del Sud Italia: “Lui, Vito Pepe, imparò a suonare l’organetto a 12 anni da altri musicisti a Nusco. Li suonava durante la mietitura, al sabato santo, durante il carnevale dovunque lo portavano gli amici. Qui coglie ogni occasione per suonare per la famiglia, gli amici o i paesani, anche se le sue figlie, cresciute alla maniera canadese, preferirebbero che lui la smettesse di esibirsi con questo strumento di altri tempi. Occasionalmente il sig. Pepe suona per spettacoli organizzati dalla locale società italiana di danza popolare”.

 

Il suo pezzo forte? La tarantella di Nusco (“una sorta di fandango”, la definisce la Lomax), suonata insieme a “un buon partner come suo fratello Antonio” e alla moglie Fiorina, “leggera e veloce come una gazzella e sempre sorridente” mentre lo accompagna con le nacchere. Non era da meno, assicura la Lomax, il cognato e vicino di casa, Antonio Della Vecchia, ribattezzato “’a volpicella”, anch’egli di Nusco: “Sa cantare e ballare con grazia; ora è in pensione dopo una vita di lavoro come scavatore e minatore in Italia e come cameriere all’Holiday Inn in Canada”. Era dal ’79 che un gruppo di antropologi aveva iniziato un’indagine nell’area di Buffalo e nell’intero Canada, con esiti di sorprendente rilievo, osserva Anna Lomax: “La scoperta, in quest’angolo d’America, di circa settanta cantori e musici popolari (…) prova la ricchezza della cultura italiana in questo continente, la sua vitalità e la complessa continuità con il vecchio mondo”.

 

Un patrimonio straordinario, afferma la Lomax, eppure in via di estinzione, poco conosciuto e rappresentato in un Paese che ha ben 18 milioni di italiani; anacronistico per i figli degli emigrati, incomprensibile per il pubblico delle altre etnie, mentre per “le prime generazioni di italoamericani, la musica cittadina napoletana, del diciannovesimo e del ventesimo secolo, divenne un simbolo pubblico di identità e solidarietà etnica”.

 

UNA FATTORIA IRPINA A LONG ISLAND Se la musica è nel sangue degli immigrati italiani (anche il fiero commissario Scobbo aveva vissuto la sua brava esperienza giovanile in una band), il culto della cucina è altrettanto radicato e raggiunge livelli quasi mistici: “Il sottosuolo dove vengono fatti il vino, la soppressata e i cibi conservati è la prima stanza da mostrare ad un visitatore”, nota ancora Anna Lomax. La sublimazione del culto si raggiunge a Long Island, dove un altro emigrante di Nusco, Amato Spagnoletti, ha ricreato a Glen Cove una fattoria italiana talmente particolare, e fedele all’originale, da meritare uno dei capitoli principali in un libro sulla cultura popolare degli italoamericani, Italian Folk, a cura di Joseph Sciorra. Entrando nella proprietà di Spagnoletti, esordisce l’autore del saggio, Joseph J. Inguanti, “sembra di arrivare per incanto in una fattoria nella regione nativa di Spagnoletti, presso Avellino”. In una calda giornata di ottobre, raccoglieva sull’albero i fichi maturati al sole; pomodori e collane di aglio erano già immagazzinati in un capannone, e in un altro vivevano i conigli”.

 

Si avverte, addirittura, “la sensazione di varcare un confine internazionale”. L’emigrato di Nusco, che si definisce con umile orgoglio “contadino”, è riuscito a trasformare la sua piccola proprietà in una vera e propria fattoria in stile italiano: delimitata da un muro in pietra, offre alla vista alberi da frutto e piante ornamentali (calendule, dalie ed altre), tra i quali razzolano polli e galline, e tutti i prodotti tipici della terra di origine (benchè in origine tutti provenienti, osserva lo studioso, dal continente americano), come zucche, peperoni, pomodori. Una bizzarria, come potrebbe essere interpretata a prima vista? Una sorta di magia, come appare a chi l’ha vista da vicino? O una risposta di tipo conservativo e identitario allo sradicamento territoriale e verso una modernità temuta e, in fondo, mai del tutto assimilata? Il tema è più complesso, rivelano gli studiosi di Italian Folk: la “bolla” fuori dal tempo e dallo spazio creata a Glen Cove da Spagnoletti finisce per diventare una delle più interessanti tra le “landscapes of memory”, i paesaggi della memoria, che stanno sorgendo qua e là negli Stati Uniti. Con quali funzioni? Molteplici: svelano l’etnicità italiana al pubblico ed agli stessi creatori; rendono visibile il valore della fatica e dell’attenzione per la famiglia; evidenziano i benefici per la salute dei prodotti biologici.

 

L’obiettivo principale resta tuttavia la salvaguardia della memoria del lavoro e dei costumi degli immigrati italiani delle generazioni precedenti: trasmettono insomma oggetti, odori e il “sapore del passato”. In questo modo, è la conclusione a cui giunge Joseph J. Inguanti, i paesaggi della memoria “nutrono le menti degli uomini che se ne occupano”. Perché il culto del paese di origine, osserva poeticamente Anna Lomax, è “un rinnovamento dello spirito, perché il paese non è solo un punto sulla carta geografica, ma rappresenta un certo modo di vita ed è la memoria di uno più antico”.

Paolo Speranza