La Penna: come diventammo antifascisti

Ricordiamo un saggio nel 1946 per i novant'anni del grande latinista di Bisaccia

Avellino.  

«Queste poche pagine (…) vogliono solo limitatamente documentare o, meglio, testimoniare quali interessi culturali furono più vivi e diffusi tra i giovani cresciuti e formatisi nel secondo decennio fascista”. Fa professione di modestia Antonio La Penna nell’incipit del saggio che pubblicò in due puntate, nell’ultimo numero del 1946 e nel primo dell’anno successivo, su una delle riviste più prestigiose del dopoguerra, “Società”.

 

In occasione del novantesimo compleanno dell’illustre latinista irpino ci sembra il modo più sobrio e concreto per onorarlo, non foss’altro che quel saggio, I giovanissimi e la cultura negli ultimi anni del fascismo è uno dei testi più importanti nella memorialistica sul “lungo viaggio attraverso il Fascismo” di un’intera generazione di intellettuali. All’epoca il futuro latinista, che si era brillantemente diplomato al Liceo “Colletta” di Avellino e poi affermato alla “Normale” di Pisa, aveva appena 21 anni ma una fama di studioso già consolidata, come si evince dallo spazio e dalla libertà che “Società”, legata al Pci, gli concesse, limitandosi ad una chiosa redazionale: “Non aggiungiamo questa nota allo scritto di A. La Penna per fare delle riserve su di esso. Lo scritto di La Penna ha valore di testimonianza e come tale è stato pubblicato qui. Molti giovani si riconosceranno in esso. Ma crediamo che molti altri, anch’essi giovani intellettuali comunisti, non riconosceranno in esso la strada da loro percorsa, e non acconsentiranno a molti giudizî. Li invitiamo a discutere”.

 

L’excursus di La Penna è infatti un “viaggio intellettuale” emblematico della sua generazione, formatasi nel contesto arido e provinciale del Fascismo prima del traumatico risveglio imposto dalla guerra e del successivo riscatto attraverso la militanza politica per la Repubblica e la democrazia, che aveva portato La Penna, nel ’45, al vertice della sezione comunista nella sua Bisaccia. Un’analisi serrata e coraggiosa sull’eredità del Fascismo (“Quel genere di educazione non tanto elettrizzò ed entusiasmò i giovani quanto li svuotò”), sul compromesso tra Chiesa e regime (“Si capisce come in un tono di cultura del genere la coscienza cattolica potesse pacificamente convivere con il fascismo”), su molta letteratura - Cecchi, Baldini, Comisso - del primo Novecento (“Quella era la letteratura di svago per una società fine ed elegante, ma vuota”) ma anche una disamina dettagliata e di straordinario interesse sulla progressiva emancipazione degli universitari italiani rispetto a “questa cultura tanto viziata quanta superficiale e generica”.

 

Riscopriamo così, con La Penna, lo straordinario ruolo culturale di Benedetto Croce (“L’avversione al fascismo nasceva ed era alimentata dagli accenni tra le righe di libri come La storia d’Europa, La storia d’Italia, La storia come pensiero e come azione. Scoprivamo con gioia quegli accenni e ci fermavamo a gustarli: le pagine prendevano il sapore del libro clandestino, ci sentivamo dei segreti ribelli, i custodi umbratili, ma fedeli, del vero. Diventammo così gli amanti nascosti della libertà, i nemici dei tiranni e dei dittatori”) e la molteplicità di letture e interessi che affascinano i diciottenni dell’epoca nell’ansiosa e persino spasmodica ricerca di novità, di nuovi orizzonti, di trasgressione intellettuale, un po’ alla maniera dei giovani dell’Europa dell’Est alla vigilia del crollo del Muro di Berlino o degli studenti (e studentesse) nell’Iran di oggi.

 

Ce lo suggerisce lo stesso autore: ricordando il piacere inebriante della scoperta della narrativa statunitense (Melville, Faulkner, Saroyan, e soprattutto Hemingway e Steinbeck), egli lo attribuisce non tanto al suo valore intrinseco quanto al suo carattere di vitalità e novità: “C’era, nell’interesse per la letteratura americana, un po’ dell’interesse per il jazz (absit iniuria verbo)”. Prima ancora, ecco la scoperta dell’Ermetismo (“Fu per noi Montale ciò che era stato il Leopardi in un certo periodo della giovinezza del De Sanctis: una comunione sentimentale lo faceva il poeta prediletto”), della narrativa realista (“Gli indifferenti di Moravia coglievano profondamente la malattia di quella società o incosciente e senza scrupoli o indecisa e senza capacità di credere e di agire, di quella società che era arrivata al fascismo”), di nuovi filosofi (Kierkegaard, Nietsche) e pensatori politici (Mazzini, Cattaneo, Pisacane), della grande poesia francese (Baudelaire, Rimbaud, Mallarmé e soprattutto Paul Valery) e inglese (“Dopo Swinburne e Wilde l’autore inglese fu naturalmente Eliot”), degli scrittori russi, nonché la riscoperta – qui in contrasto con Croce – di Pascoli e Pirandello, mentre “si leggevano con interesse Boine, Michelstädter, Serra, Jahier, Slataper”.

 

Notevole anche la parte finale, più politica, dell’intervento di La Penna, con le riflessioni sulla guerra e il ricordo di Giaime Pintor, il convinto approdo al marxismo (soprattutto nella declinazione antisistematica di Labriola), le considerazioni tutt’altro che dogmatiche sul ruolo del “Politecnico” di Vittorini e più in generale della nuova categoria dell’”intellettuale organico”. E su questo conclude, in maniera polemica e problematica al tempo stesso: “Prendiamo ordini da partiti politici? Piuttosto di altro dovrebbero accusare noi; o, meglio, non noi, che siamo gli ultimi arrivati, ma quelli che sono arrivati un po’ prima di noi: di essere poco chierici, di non aver organizzato finora nessun movimento che si sia posto unicamente e precisamente come compito quella battaglia culturale alla cui necessità si è sopra accennato”.

Paolo Speranza