Daniele, Pulcinella senza maschera

La morte dell'artista, un'emozione collettiva. In tanti non hanno compreso il fenomeno popolare

Avellino.  

Tra qualche tempo, quando ripenseremo all’inizio di quest’anno, non potremo che associarlo alla prematura scomparsa di Pino Daniele e all’ emozione collettiva, spontanea e sincera, viscerale e coinvolgente, che ne è derivata, in particolare nella città che gli ha dato i natali. La notizia, rimbalzata attraverso i social network durante la notte tra il 4 e il 5 di gennaio, ha creato una specie di ipnosi generale, giorni di sospensione e riflessione, incredulità e turbamento. Troppi editorialisti, con la penna affilata e il naso arricciato, non hanno compreso il fenomeno popolare, hanno provato a minimizzare quell’onda lunga di sentimenti che ha idealmente accompagnato l’ultimo viaggio del cantautore napoletano, hanno provato a sovrapporsi, a mettersi in primo piano, a far prevalere il commento sul racconto, la filosofia sulla cronaca, le idee sui fatti. E’ tipico di queste occasioni. Non conta più ciò che il defunto ha rappresentato ma quello che gli opinion maker de’ noantri pensano dello stesso defunto, del contesto in cui si svolge la cerimonia funebre e delle ulteriori elucubrazioni sul trapasso, sui soccorsi e sull’autopsia. Si crea una sorta di cortocircuito delle informazioni che inghiotte i ricordi e fa emergere soltanto la retorica, lascia l’Arte sullo sfondo e impone il borioso chiacchiericcio da salotto televisivo. Questa volta non è successo, non poteva succedere. Anche i rumori di fondo sono stati silenziati e gli intrepidi opinionisti si sono ritirati in ordine sparso con i loro “discorsi intellettuali senza onestà”.

 

Si è verificato qualcosa di diverso rispetto al passato, è prevalso il dolore sussurrato, il lutto composto di una città che si è trovata improvvisamente orfana di un altro dei suoi figli, mutilata di un'altra sua creatura, di un artista che, per sua stessa ammissione, amava e odiava Napoli senza che tra i due sentimenti contrastanti si creasse una stridente contraddizione.

 

L’odio è una degenerazione dell’amore, la conseguenza della delusione ma è anche la spinta a cambiare le cose, a non restare in silenzio con le braccia intrecciate, è la spinta all’azione e alla creazione. Pino, a cavallo degli anni ’80, ce l’aveva con chi si stava divorando la città nascondendosi dietro le visioni oleografiche (“I' allucc ogni minuto / Ncopp 'e vocche d'e criature / Ncopp'e mane d'e signure 'e 'sta città”), si scagliava contro quella borghesia napoletana avida e conservatrice, ancorata ai propri privilegi (“'a vita e nu muorzo / ca nisciuno te fa da' / 'ncopp'a chello che tene”), con un linguaggio irriverente, mischiando inglese, napoletano e cattive parole. Ha sdoganato espressioni dialettali di cui si era sentito l’eco soltanto tra gli schiamazzi di strade e vicoli, da “puozze passà nu guaio” a “che te ne fotte” fino al famosissimo “nun ‘nce scassat’ ‘o cazzo” che chiudeva uno dei suoi cavalli di battaglia, “Je so’ pazzo”. Non gli importava di essere considerato volgare, la sua preoccupazione era quella di arrivare dritto al punto, senza contorsioni o divagazioni, evitando ipocrisie e luoghi comuni.

Per Pino, infatti, il mare era un fardello (“chi tene ‘o mare porta na croce”), il sole era “amaro” e Napoli la immaginava come “una carta sporca”. Con la sua musica, una geniale e originale contaminazione di jazz, blues, rock e sound partenopeo, è entrato nella testa delle persone, le ha costrette a fare i conti con la realtà, a osservare con attenzione quello che fino a qualche momento prima avevano guardato solo distrattamente.

 

Il Pulcinella senza maschera s’è messo alla guida di un popolo che “cammina sotto ‘o muro”, ne ha individuato pregi e difetti, risorse e limiti, alleati e detrattori. La musica s’è trasformata pure nello strumento per esorcizzare il razzismo indirizzato verso i “neri a metà”, per combatterlo, per ribellarsi, per imporsi e pure per scontrarsi contro un muro di ottusità (“Mò basta / pecchè nun vale ‘a pena ‘e ce capì / mò basta vide addò te n’haje’i”).

 

Ieri come oggi. Accade ancora che a Cesena non si abbia rispetto del dolore, si fischi durante il minuto di raccoglimento prima di abbandonarsi ai soliti coretti stupidi da ultimo stadio. Siamo ben oltre l’intolleranza leghista di cui cantava Pino, ormai è una questione di pura idiozia.

 

Il Paese è un corpo separato, non riesce a comunicare senza trasmettere astio e Pino l’aveva intuito prima di molti altri. Ecco perché l’immagine di Piazza Plebiscito stracolma e commossa, la veglia prima e il funerale poi, i telefoni sollevati come candele, le canzoni come preghiere laiche, ci restituiscono qualcosa da cui ricominciare, la volontà di non arrendersi all’ineluttabile, tutto ciò che di catartico è contenuto nella Musica dei più Grandi.

 

Proprio della morte, Pino ne aveva parlato tante volte nei suoi pezzi. C’era forse un presagio oscuro che accompagnava i suoi testi, una specie di alone misterioso che circonda sempre chi si congeda troppo presto dalla vita. Una rilettura di certe canzoni oggi provoca un brivido lungo la schiena (“E cammina, cammina vicino ò puorto / e rirenno pensa a' morte / se venisse mò fosse cchiù cuntento / tanto io parlo e nisciuno me sente”).  

 

E dalla scomparsa, anch’essa precoce e meschina, di Massimo Troisi, nacque una delle sue canzoni più belle, “Quando”. Esiste anche un filo sottile che lega il 4 giugno 1994 al 4 gennaio 2015. Questi due momenti tragici, seppure distanziati di oltre venti anni, generano le stesse sensazioni e lo stesso sgomento. C’è qualcosa che ha unito Pino e Massimo in vita e qualcosa che li ha congiunti pure nel momento fatale. Entrambi erano malati, il cuore di Massimo s’è arreso troppo presto, quello di Pino ha resistito fin quando ha potuto.

 

Tutti e due sono stati capaci di leggere, interpretare e raccontare Napoli, rifuggendo le convenzioni ed evitando le banali scorciatoie. Certo, nella carriera di Pino, c’è stata la svolta pop-commerciale della metà degli anni ‘90, i duetti con Irene Grandi o Giorgia che hanno fatto impallidire quelli con Eric Clapton o Pat Metheny, poi c’è stato un provvidenziale ripensamento, il ritorno ai ritmi mediterranei, le sperimentazioni, la reunion con i suoi compagni di viaggio, i musicisti con cui era nato e con cui è rimasto sul palco fino all’ultimo concerto. Prima del brusco silenzio e del brusio emozionato di Piazza Plebiscito. Prima che si librassero in cielo le note che sono già entrate nella Leggenda.

Gianluca Spera