Lo abbiamo scritto più volte. La corrucciata ombra di Banquo prima o poi si sarebbe materializzata per tormentare coloro che con i suoi voti avevano conquistato la maggioranza nelle elezioni amministrative del maggio-giugno 2024.
In realtà come non vedere che le liste di supporto alla fedele Vice di Banquo erano zeppe di candidati provenienti dall’esperienza quinquennale precedente, conclusasi drammaticamente con l’arresto del suo indiscusso protagonista, sommerso da accuse assai pesanti sul piano della gestione amministrativa e della condotta morale. Come non capire che una solidarietà costruita in anni di amministrazione condivisa della cosa pubblica avrebbe tenuto comunque unite le forze e permesso all’escluso per cause di forza maggiore un ritorno, momentaneamente indiretto, nel governo della città trasformando le modeste insidie domestiche e i reiterati segnali di insofferenza in problema aperto di fronte alla mancata approvazione del problematico bilancio di previsione.
Due delle tre liste di Banquo ottennero nelle urne oltre 8.000 preferenze contro le 7.557 del Partito democratico, pur protetto in sede locale dalla presenza del potere regionale, prodigo di favori e prebende per i suoi sostenitori. Al ballottaggio la Vice ottenne complessivamente 12.501 voti, con un incremento di 2.526 rispetto al primo turno, mentre il candidato del raggruppamento del campo largo in salsa avellinese, mai del tutto digerito dal suo partito, il generoso e più volte ingannato Gengaro, 11.612, con un aumento irrisorio di soli 246 voti.
Potremmo chiederci dove personaggi del tutto sconosciuti al dibattito pubblico o alla vita socio-culturale cittadina sono riusciti a raccogliere consensi sostanziosi in termini di preferenze personali ma questo fenomeno inquietante e in parte misterioso dobbiamo distribuirlo equamente fra tutti gli schieramenti. Il voto di scambio e un pesante traffico d’influenze nefaste sono caratteristiche storiche, direi crismi delle campagne elettorali meridionali e Avellino non è affatto immune da queste rovinose pratiche.
Nei quartieri a più basso reddito e con incipienti problematiche sociali imperversano i collettori di voti che un tempo portavano quanto raccolto in dote ai loro autorevoli padrini politici ed ora, dopo aver risolto i loro bisogni primari grazie ad un posto di lavoro ottenuto dalla politica, li usano virtuosamente in proprio.
Ma non si può trascurare che questa sorta di corruzione ambientale ha contagiato negli anni la piccola e media borghesia cittadina, intrinsecamente correa di tutti i processi clientelari messi in atto dal potere politico-amministrativo. Inoltre l’attivismo imprenditoriale, la mancanza di personale adeguato negli enti di gestione e la talvolta feroce cementificazione della città, causa di uno smarrimento antropologico e di una frattura sociale tra le sue parti considerevole, sono state il derivato qualificante di alleanze alquanto promiscue tra politica e affari.
Gli esiti sono stati inevitabilmente devastanti sul piano della selezione delle rappresentanze tanto da avere consigli comunali sempre più segnati da livelli culturali molto approssimativi e da capacità espressive limitate, caratterizzate dalla prevalenza di linguaggi gergali e discussioni degne del bar dello sport.
La crisi della rappresentanza, ridotta a un ipogeo depressivo, distante e remoto da soluzioni elitarie, ha avuto contraccolpi pesanti nell’ambito di una mancata realizzazione di obiettivi sistemici, lasciando la città in balìa dell’approssimazione e di politiche degradanti e a dir poco naïf ma con connotazioni tendenti al kitsch. L’assenza dei successi strutturali è una delle caratteristiche per individuare classi dirigenti inadeguate e parassitarie. Tutti gli istituti di ricerca valutano le capacità amministrative e politiche sulla base di un criterio di fondo: cosa viene realizzato per una trasformazione concreta e un miglioramento duraturo della qualità della vita dei cittadini. Ad Avellino ci troviamo di fronte al nulla coperto sovente da litanie comunicative scadenti e prive di quel senso del Limite che contraddistingue chiunque sia in possesso di una regola morale.
Basterebbe comunque una lettura seria del risultato della tarda primavera del 2024 per capire quanto accade in queste ore nel sempre più buio Palazzo di Piazza del Popolo sia una conseguenza inevitabile degli esiti usciti dalle urne meno di un anno fa. Perché accanirsi nel non voler leggere la realtà per creare inutili discussioni intorno al ruolo del sindaco uscente, il vero e unico vincitore dell’ultima tornata elettorale. Parte cospicua della città, occorre dirlo senza ricorrere a metafore o allusioni moralistiche, ha scelto di non condividere le ragioni delle inchieste giudiziarie e di schierarsi dalla parte di chi nei giorni del voto era agli arresti domiciliari.
Nei mesi successivi abbiamo assistito alla sceneggiata della transitoria “discontinuità” e alla emerita arlecchinata della giunta tecnica, prima declassata e poi immolata al primo sbadiglio dell’irritato padrone del vapore, sempre più tarantolato dall’assenza di un protagonismo in vetrina e seccato dall’inevitabile tentativo di autonomia delle sue creature. Inventate al punto di nebulizzarle, togliendogli giorno per giorno autorevolezza, credibilità, rappresentanza. Esemplari sono le motivazioni del passaggio di consiglieri nell’ambito della maggioranza da un gruppo all’altro, una simpatica attivazione di vasi comunicanti, pur di rafforzare il peso contrattuale dell’adirato giocatore del mercante in fiera.
Ma tutto questo non è bastato a consumare del tutto la credibilità di un’amministrazione retta soltanto da slogan velleitari, assorbiti con immensa generosità da una stampa sovente distratta e frettolosa. Si è iniziato a parlare senza verecondia di circolo bucolico, di paradossale cambiamento gentile e si è giunti in queste ore a rivendicare una formazione risalente agli insegnamenti della scuola del PD, quello stesso PD appunto occupato dai trasformisti per vocazione e contraddistinto dalle facili perfidie - il triste crepuscolo dell’onorevole De Mita, l’eroe tradito, è ormai un caso di scuola da insegnare ai giovani studenti di scienze politiche -, dalle tessere acquistate in blocco nell’indifferenza generale e dai congressi svolti con la stessa ciclicità delle ere geologiche.
I suggeritori di simili scempiaggini, in particolare rivendicare l’appartenenza ad una specie di Istituto Benjamenta, famoso, nel racconto “Jacob von Gunten” di Robert Walser, per educare alla fuga dal pensiero e alla mistificazione, andrebbero affidati alle pernacchie di don Ersilio, personaggio interpretato da Eduardo De Filippo, del memorabile film diretto da Vittorio De Sica “L’oro di Napoli”, tratto dall’omonimo libro di Giuseppe Marotta.
Ed inoltre, in questa rapida analisi del contesto, perché non tener conto di quanto denuncia da mesi, peraltro in incontri pubblici, l’ex senatore del PD Enzo De Luca, attore coerente e testimone di un trentennio e oltre di vita politica provinciale e regionale, ossia che settori del partito, volontariamente, avrebbero boicottato il suo candidato pur di non favorirne l’elezione a sindaco? Misteri della ipocrisia e della irrilevanza etica di un gruppo di politicanti dalla mentalità neocoloniale, argomento questo su cui ritornerò prossimamente, che ha posto il partito, una organizzazione da troppi anni familistica, senza idee e senza progetti credibili, al servizio delle proprie carriere, ignorando militanza, capacità e ideali di tanti iscritti in buona fede.
Accusa questa di De Luca molto pesante che spiegherebbe però il collasso elettorale subito dal candidato dem, vicino alle posizioni della fragile Schlein, al ballottaggio, rivelatosi un inaspettato salto nel vuoto nonostante il vasto bacino elettorale in cui poter ancora raccogliere consensi.
L’azione del sindaco-ombra, sintomatica e funzionale per le sue prevedibili scalate all’insegna del più esasperato egotismo, travestite malamente di idealità e preoccupazioni civiche, credo sia stata favorita dal disimpegno e dalla improvvisazione di carrieristi ossessionati dalla partecipazione in solitaria alle prossime elezioni regionali e poco attenti al risultato della coalizione. A questo si aggiunga la debacle e le divisioni della destra, guidata, per ragioni riconducibili alle insondabili leggi della antica malizia del Mezzogiorno rurale, a fari spenti nella notte fonda.
A questo punto, in un clima di declassamento irreversibile, la farsa a Piazza del Popolo, temo, continuerà senza aprire stagioni apocalittiche ed avrà cadenze teatrali degne delle parodie proposte nei teatri popolari dell’Ottocento. I personaggi, certo adatti per la sceneggiata e non per il dramma, ci sono tutti. Non manca nemmeno don Felice Sciosciammocca, il personaggio immaginario creato da Eduardo Scarpetta per ridicolizzare la piccola, credulona società borghese della Napoli post-unitaria.
Eppure gli organi di governo, questo il mio auspicio, potrebbero intervenire contro ogni linguaggio o segno di ambiguità - pausa, riflessione e altre modeste furbizie semantiche sono già in giro -, per riconsegnare ai cittadini il potere di scegliere tra continuità e cambiamento, tra paternalismo volgare e democrazia, tra disinvolto dilettantismo e severa moralità pubblica. Intanto lo scandalo tecnicamente è in atto sul piano lessicale e su quello etico.
Da credente e in tempo pasquale non posso non affidarmi ai Vangeli e in particolare a quello di Matteo che recita: “Ma chi avrà scandalizzato uno di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina da mulino e fosse gettato in fondo al mare”, ed ancora: “Guai al mondo per gli scandali! È inevitabile che avvengano scandali, ma guai all'uomo per colpa del quale avviene lo scandalo!” (Mt 18.6 e 18.7).
La soluzione dell’evangelista nel condannare lo ‘scandalo’ è radicale. Ai cittadini avellinesi di buon senso, distanti da ogni atto traumatico o violento, basterebbe una sola, civilissima parola per trovare finalmente una luce di dignità in tanta angosciosa oscurità della ragione: dimissioni.
Auguriamoci intanto che la imminente promozione dell’Avellino in serie B non generi dannose sovrapposizioni, rinnovando il tragico connubio tra politica e tribù del calcio, annacquando e deformando l’itinerario di una crisi tecnicamente senza uscite di sicurezza.
L’autore è professore ordinario di Letteratura italiana nell’Università degli Studi di Cassino e del Lazio Meridionale.