Avellino: il borghese che non c’è

Riflessioni sulle dichiarazioni di Antonio Gengaro sul voto in città....

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Avellino.  

Nei giorni della Merla, destandosi da una eccentrica quanto curiosa glaciazione dell’intelligenza e della militanza, quella piccola, capricciosa Avellino della politica, distante ed estranea all’Avellino del lavoro e della conoscenza, manifesta un eccentrico interesse per il dibattito sociologico. Si scopre infatti interessata all’uso sportivo di un lessico scientifico, estraneo alla più naturale e rinnovata predilezione per il dialetto indigeno, con argomentazioni incolte, non prive di inevitabili cianfrusaglie populiste.

Il tutto riverbera da una considerazione fatta dal consigliere Gengaro, certo in buona fede e per giunta in un contesto assai poco accademico, sulla distribuzione del voto in città e sull’esistenza di una geografia sociale che porterebbe a ritenere i quartieri cosiddetti popolari, in realtà spazi talvolta autonomi rispetto all’insieme del contesto cittadino, distanti dal centro borghese sul piano della distribuzione della qualità delle preferenze elettorali.

Una bestemmia? Francamente non credo che l’ex candidato a sindaco di quel resto di niente che in provincia si chiama Pd avesse il coraggio di spiegare l’articolato concetto di borghesia ai meditabondi amministratori di Piazza del Popolo, sovente, in special modo durante le umoristiche e pirandelliane sedute del consiglio, lettori e interpreti del classico di Werner Sombart, “Il borghese. Contributo alla storia dello spirito dell’uomo economico moderno” (1913), degli studi di Roberto Michels, teorico della “legge ferrea dell’oligarchia”, tanto indagato dal nostro Guido Dorso, e delle conferenze di Max Weber. Per la verità pare che qualche assessore, in perenne combutta con congiuntivi e participi, abbia rimproverato l’audace oppositore dorsiano di aver creato con le sue dichiarazioni un’aporia e di non aver ancora letto proprio di Weber, “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo”.

Ma veniamo al nocciolo della questione peraltro sollecitata da una mia recentissima intervista al quotidiano «Il Mattino» e da una intima vocazione al civile gioco intellettuale.

Dai primi anni Sessanta e fino alla selvaggia cementificazione del post-terremoto dell’Ottanta, Avellino è andata sempre più diversificandosi al suo interno sulla base di una sbilanciata distribuzione dei redditi e di una graduale ghettizzazione delle fasce meno abbienti, che hanno generato una dilagante frattura sociale nello spazio urbano e nella sua interpretazione visuale.

La violenta urbanizzazione dell’antico Parco dei Caracciolo, nel Seicento, secondo Benedetto Croce, una delle meraviglie del Regno, e della Collina dei Cappuccini, uno scandalo urbanistico irrisolto, è l’immagine plastica dell’uso perversamente classista e soprattutto affaristico dell’edilizia d’assalto del tempo.

Da un lato un rione genericamente creato per acuire marginalità, malesseri e bisogni primari, dall’altro la riproduzione di una dimensione abitativa volutamente borghese, seguendo il canone emulativo dei più classici spazi residenziali, murati e alberati, largamente occupato da parvenus e provinciali con l’ansia di acquisire una visibile cittadinanza romana, rimuovendo goffamente le proprie origini italiche. Una sorta di metafora cementificata destinata a generare il culto di una contrapposizione tra privazioni e benessere, tra povertà e ricchezza, tra opinioni e opinione come teorizzava il De Sanctis giovane rivoluzionario: comunque solo una illusoria raffigurazione immaginaria in un caos urbanistico caratterizzato non da concertate linee di sviluppo bensì dall’intuito mercantile ed elettorale di più di una generazione di palazzinari e affaristi.

Qualche campiere tirato a lucido, a cui possiamo di diritto affiancare opportunisti e procacciatori d’incarichi degli ultimi mesti bagliori del potere demitiano, insiste sul sostegno dell’opinione pubblica, sovrapponendo, per ignoranza crassa, l’entusiasmo atomizzato della tifoseria oppure il merito meschino dell’attribuzione dell’immancabile contributo regionale con il senso critico di una società sempre più sollecitata dalla competitività al ribasso. Senza scomodare la filosofia politica classica possiamo ricordare che l’opinione pubblica non è stata mai incorruttibile e talvolta, lo ricorda Marx nella “Questione ebraica”, tende a mascherare gli interessi delle classi egemoni.

In un paesaggio con rovine non potevano non derivare pesanti limiti alla democrazia e ostruzioni concrete al suo esercizio. Il voto di scambio si è rivelato nel tempo una pratica ricorrente nei quartieri debilitati dalla perdurante marginalizzazione, ma in forme meno ruvide ed elementari si è inserito anche nelle cattive pratiche della piccola e media borghesia cittadina, affamata d’incarichi professionali e ansiosa di occupare impieghi nella pubblica amministrazione.

Ho più volte scritto che basterebbe uno studio sulla composizione socio-antropologica dei consigli e delle giunte comunali dell’ultimo trentennio per cogliere la progressiva metamorfosi dello status di cittadinanza degli eletti da riconosciuti rappresentanti della civitas a ignoti portatori di interessi di clan familiari o condominiali, detentori di utili risorse elettorali proprio laddove il tornaconto personale prevarica quello comune. Una fitta rete di relazioni e di parentele costruisce il consenso come prodotto merceologico e non di opinione.

Le differenze centro-periferia intanto si sono ridotte ad una mera questione di reddito con tutte le implicite disuguaglianze che ne derivano senza però creare increspature nelle relazioni gerarchiche esistenti tra i due spazi. Nei quartieri del disagio masse nebulizzate, amorfe e isolate, ritrovano effimera coesione nel tempo breve delle elezioni comunali. Occorre riflettere che ad Avellino, per riprendere una intuizione generale di Immanuel Wallerstein, si vanno prefigurando spazi nuovi, semiperiferie, che mediano sul piano dei consumi il rapporto tra il centro quale luogo della esibizione della ricchezza e la città marginalizzata, laddove si riproducono in negativo i modelli del benessere.

L’assenza della borghesia storica, quella che nel passato aveva la possibilità e gli strumenti per giudicare i vizi e le virtù del potere politico e il valore delle sue azioni, ha prodotto uno dei fenomeni più intriganti della politica moderna ossia la comparsa dei parvenus, i nuovi ricchi, che hanno prima scavalcato e poi soffocato la classe media.

In politica i parvenus sono stati il frutto di una crisi del blocco sociale di cui parlava Pasquale Saraceno negli anni Cinquanta, che hanno impoverito il dibattito pubblico e favorito, grazie ad un perverso appoggio finanziario, l’avvento di un ceto politico approssimativo, talora composto da milizie di disoccupati, che hanno preso d’assalto enti e amministrazioni pubbliche in quanto sorgente di reddito e di controllo dell’elettorato.

La mancanza di élite, in parte emigrate oppure rinchiuse nelle loro fragili Bastiglie, ha permesso la professionalizzazione dell’incarico accreditando tanti falsi ambasciatori dei bisogni della periferia in impiegati di sistema nella cosa pubblica: in fondo il consiglio comunale del capoluogo, come già affermato nella richiamata intervista, è la proiezione di una gerontocrazia conservativa del consenso elettorale, del tutto priva di idealità attendibili ma soggettivamente attiva nel contesto.

Il voto dei seggi centrali (per tutti ricordo quelli ubicati nella nobile scuola Regina Margherita di piazza Garibaldi), quello delle periferie (Rione Mazzini, Contrada S. Tommaso, Generale Rotondi ecc.) si dissolvono in un risultato contraddistinto da una estroversa e giullare passività alla critica ed entrambi assumono sembianze reciproche di affluenti dei disvalori della prassi borghese e di quella popolare.

Avellino, così come tante città meridionali, è priva di un modello borghese da molti decenni. Dagli anni Settanta ci troviamo di fronte ad una sua scomparsa, per ragioni che l’economista Paolo Sylos Labini ha spiegato in un testo che chiunque faccia politica dovrebbe leggere con cura. Mi riferisco al notissimo “Saggio sulle classi sociali”, apparso per Laterza nel 1974 e più volte ripubblicato. Il problema è la perdita di forza economica, culturale e sociale della classe media, quella che tecnicamente si pone a livello intermedio tra borghesia propriamente detta e proletariato.

Non vorrei abusare del lettore ma l’espansione della piccola borghesia, in particolare con l’istituzione delle Regioni a statuto ordinario nel 1970, modificò gli assetti sociali della provincia italiana e la sua sintassi interpretativa soprattutto sulla base di un accrescimento del reddito, di uno svuotamento delle campagne e di una progressiva scomparsa della proletarizzazione tanto auspicata dalla visione marxiana, senza però accrescere né la pluralità né il pluralismo.

La crisi sociale nella realtà dello sviluppo storico di questi ultimi due decenni ha inevitabilmente impoverito ruoli e funzioni soprattutto della piccola borghesia urbana, relegandola in una posizione subalterna e talvolta parassitaria nei confronti di una politica sempre più, dopo la crisi del 1992-1994, priva di credibili motivazioni ideali e programmatiche quanto egemone nel controllo del pubblico impiego (amministrazioni pubbliche, ospedali, enti di servizio ecc.).

Avellino, anch’essa globalizzata senza un processo di adeguata consapevolezza geo-storica, non ha una classe dirigente di formazione borghese capace di produrre un canone culturale su cui risolvere le contraddizioni e la complessità della post-modernità.

Gli attuali amministratori, prodotti funzionali del sistema dei parvenus e di una devastante “rappresentazione collettiva”, sono eredi di processi politici ed economici non solo territoriali, ma molto più vasti che hanno interessato il Mezzogiorno contemporaneo, per assenza di classi dirigenti adeguate ai processi della modernità: basta scorrere le recenti relazioni annuali della SVIMEZ per capire le contraddizioni della situazione meridionale analizzando fattori quali lo spopolamento, il lavoro povero, il Pnrr.

Le modalità di gestione amministrativa ad Avellino, prive di competitività e coesione, non possono non riprodurre un impertinente, strapaesano revival della continuità fra recente passato e disordinato presente, scandito da una rovinosa eclissi della ragione. Con conseguenze che restano nitide sul terreno dell’etica pubblica, dichiaratamente profanata, e ancora oscure su quello giudiziario. D’altronde, seguendo un aforisma del poeta e scrittore polacco Stanislaw Jerzy Lec, non ogni notte termina con l’alba.

L’autore è professore ordinario di Letteratura italiana Dipartimento di Lettere e Filosofia Università degli Studi di Cassino e del Lazio meridionale