Responsabili a chiamata: incolti che giocano a fare gli amministratori

Analisi della crisi tra le contraddizioni del Pd, l'opportunità delle dimissioni e ritorno al voto

responsabili a chiamata incolti che giocano a fare gli amministratori
Avellino.  

Nel salmastro e infelice Palazzo di quella che fu un tempo Piazza del Popolo, secolare spazio di raccolta della cittadinanza avellinese, dei suoi traffici e dei suoi scambi commerciali, cancellata dalla furia demolitoria e affaristica del post terremoto del 1980, si consuma in queste ore l’ennesimo, paradossale disastro politico-amministrativo attraverso comportamenti dall’andamento non proprio carsico di creature fragili e inadeguate o di arroganti infantilmente decisi ad averla vinta in nome di una blasfema, impudente lettura del Sermone della Montagna (Matteo 5-7) ma molto più concretamente risoluti nel far pesare al modo di Brenno, artefice del sacco di Roma nel 390 a.C., il guaio ai vinti.

I soccombenti cittadini avellinesi, colpevolmente coinvolti nel travisamento dei problemi generali, avevano sottovalutato i possibili scenari e i prevedibili comportamenti funzionali e conseguenti di figuri, figurine e sosia dei magliari immortalati da Francesco Rosi nell’omonima pellicola del 1959, in gran parte credenti praticanti della liturgia dell’incarico.

Personcine innanzitutto senza tempra, incolte sul piano istituzionale, del tutto prive della misura etica del pudore, che giocano a fare gli amministratori di Avellino, senza averne capacità e titoli se non il consenso elettorale acquisito 6 mesi fa al traino di un ex sindaco oggi sommerso da inchieste giudiziarie ma ancora capace di raccogliere intorno a sé un numero consistente di gregari disposti, pur di seguire il proprio capo plebiscitario, «a rinunciare alla propria anima», come ci spiega Max Weber.

La mimetica materia del contendere, dopo la volgare cacciata di novelli Carneade assurti per un solo giorno, loro malgrado, agli onori delle cronache cittadine, questa volta sarebbe l’assegnazione in giunta di due deleghe: sport e cultura. Siamo commossi intanto nel ritenere che la contesa derivi dalla contrapposizione di modelli culturali diversi di città e non dalla miserabile convinzione che entrambi gli assessorati possano servire per reiterare meschine, oltraggiose gestioni clientelari e familistiche: taluni possibili sostituti dei tecnici, usati senza vergogna come autunnali foglie caduche, hanno curriculum, probabilmente, che lasciano inorriditi ogni persona di buon senso. Ma non vorrei troppo addentrarmi nella fangosità della palude bensì soffermarmi brevemente intorno a un fascio di considerazioni politiche o pseudo tali.

Modesti rincalzi talvolta assurti al rango di leader provinciali, a dimostrazione che la formazione delle classi dirigenti, persino di quelle locali, resta un mistero per molti versi tragico e inspiegabile, sono al lavoro per assicurarsi uno spazio nelle prossime elezioni regionali in Campania.

Il dibattito sul terzo mandato condiziona non poco personaggi pronti ad adattarsi senza decenza alle situazioni pur di conservare posizioni di privilegio nel contesto. Il reuccio salernitano teme non poco proprio i suoi servi più fedeli, abituati al cambio di scuderia allo stesso modo del cambio di una cravatta, oggi accondiscendenti domani avversari implacabili qualora il PD a trazione Schlein dovesse definitivamente mandarlo alla deriva insieme al suo sistema di potere.

Senza possedere l’ironia dell’Arlecchino goldoniano, servitore di due padroni, costoro, forse in affari con i novelli Truffaldino, Brighella e Smeraldina, attualmente, sono alla ricerca di quello giusto.

In questa sorta di bazar orientale, un suq abietto e indecoroso dove parvenze di idee si dissolvono nella strenua difesa del proprio “particulare”, negli interventi di venditori di tappeti e di bottegai senza licenza, riaffiora in superficie la parola responsabilità: per giunta scandita con fermezza e chiarezza fonica. Naturalmente, per mancanza di qualsiasi rudimento culturale, non si parla delle affascinanti teorie proposte da Hans Jonas, l’allievo di Heidegger e di Bultmann, nel formidabile volume Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, (Torino, Einaudi, trad. it. 1990), ma di significati molto poco filosofici, senza alcun intendimento nel voler stabilire una congrua relazione tra etica universalistica e realismo politico. Tutt’altro. Nel caso avellinese si parla di responsabilità a chiamata.

All’orizzonte, dalle parti del PD, quello che non celebra congressi per intenderci da anni, incassa batoste elettorali senza batter ciglio e pretende di ritenersi ancora un partito e non un club a conduzione familiare, si prepara la carica dei responsabili appunto.

Discorsi melliflui, dal tono unto, affiancati ad atteggiamenti pretagni e furbeschi, lasciano intravedere l’esca dell’assennatezza pur di rimediare incarichi e posizionamenti tattici. Possibile, mi chiedo, non si riesca a scalzare un gruppo di designati con la forza e le idee degli iscritti, di tanti giovani liberi e forti, e di quanti in buona fede votano un grande partito del centro-sinistra per i suoi programmi e non per appoggiare carriere di parvenus che utilizzano la politica come comodi omnibus?

Mancino, De Mita, De Luca eppoi, quale sarà il nuovo padrone taumaturgo da osannare e da sfruttare?

Domande inevase ma argomenti più volte appassionatamente discussi con il direttore Pierluigi Melillo, lo scrittore Franco Festa e Enzo De Luca, già senatore della Repubblica, testimone e protagonista di tante stagioni politiche dell’Irpinia contemporanea, tutti consapevoli che la guerra è vinta solo se si prende atto che non ci si può battere per una causa immorale.

La indecente crisi al Comune di Avellino, per definizione lo spazio che accoglie l’ethos di una comunità e il dovere della verità, non trascuriamolo, deve chiudersi quindi con le dimissioni dell’amministrazione uscita dallo sfolgorante voto del giugno scorso, come atto non salvifico ma almeno opportuno, e il ritorno immediato alle urne. Senza reticenze e senza far ricorso alla maledetta, sciagurata quanto singolare propensione alla “responsabilità” degli opportunisti di professione, pronti a “immolarsi” nell’audace quadriglia del ribaltone. A questa inaccettabile scelta bisogna pur contrapporre la operosità quotidiana della gente onesta e il nostro continuare a credere nella “vocazione” per la politica.

Max Weber è ancora lì ad insegnarci che «la politica consiste in un lento e tenace superamento di dure difficoltà, da compiersi con passione e discernimento al tempo stesso. È perfettamente esatto, e confermato da tutta l’esperienza storica, che il possibile non verrebbe raggiunto se nel mondo non si ritentasse sempre l’impossibile» (La politica come professione, 1919).

Altrimenti non restano che macerie prodotte dalle certezze dell’ignoranza e dalla mancanza di una etica della responsabilità come dovere non soggettivo ma orientato coraggiosamente, attraverso un agire etico, alla tutela del futuro. Appunto. Come la sorda e tracotante Avellino di questo Natale, che alla luce illuministica della ragione e della moralità pubblica preferisce quella fatua e abbagliante delle luminarie e dei mercatini.

L'autore è Professore ordinario di Letteratura italiana Dipartimento di Lettere e Filosofia Università degli Studi di Cassino e del Lazio meridionale