Chiariamo innanzitutto che si tratta di una classe di farmaci presente già da una decina di anni nella la terapia del diabete di tipo 2. Era anche evidente un effetto sulla riduzione del peso corporeo. Non si spiega come improvvisamente sia scoppiata questa moda che, tra l’altro va spesso al di la delle necessità terapeutiche. Parliamo degli agonisti del recettore del GLP-1 (liraglutide, dulaglutide, semaglutide, etc.) e degli agonisti anche del GIP (tirzepatide).
L’obesità, definita da un indice di massa corporea (BMI) superiore a 30 kg/m2 riguarda più di un quinto delle persone del mondo occidentale. Si parla di obesità severa quando l’indice in questione raggiunge il valore di 35 o 40 kg/m2. Oltre gli inconvenienti fisici e psichici, l’obesità rappresenta un fattore di rischio per le malattie cardiovascolari, per i tumori maligni, e per il diabete. L’obesità di grado severo riduce la speranza di vita di circa dieci anni. Fino ad ora non esisteva un trattamento accettabile, e la pratica di un regime alimentare trovava spesso delle difficoltà pratiche.
Le persone interessate, spesso appartenenti a categorie sociali sfavorite, finiscono per trovarsi in una situazione delicata. Si tratta di un problema importante di salute pubblica, dato che la prevalenza dell’obesità è raddoppiata in 25 anni. La prevenzione per mezzo dell’educazione, con una migliore alimentazione durante l’infanzia, con il divieto della promozione di alimenti e di bevande ricche in zuccheri, è indispensabile. Ma come aiutare le persone già affette dal problema?
Una classe di farmaci, che erroneamente viene definita nuova dal provincialismo e dall’ignoranza di alcuni addetti, permette una perdita di peso che va dal 10 al 25%, con effetti indesiderati limitati. Si tratta naturalmente delle molecole di cui sopra. Esse agiscono sul cervello favorendo la sazietà ed esplicano un effetto di protezione contro le malattie cardiovascolari e renali, in particolare nei diabetici. Ripetiamo, si tratta di effetti già evidenziati da tempo nei nostri ambulatori. Naturalmente le case farmaceutiche, che producono e commercializzano i prodotti, hanno raddoppiato le loro cifre di affari raggiungendo un beneficio di almeno il 36%.
Il prezzo del trattamento è dell’ordine di 3000 euro all’anno e per paziente. Eccessivo e non sostenibile, almeno ad un primo esame. Ma se si considera il beneficio sul lungo termine, con riduzione dei ricoveri per malattie cardiovascolari e renali, che spesso richiedono procedure costose e complicate, ecco che allora si riduce, in modo vantaggioso, il costo in ragione del beneficio. Inoltre certamente le cifre si ridurranno nel tempo in considerazione del fatto che il costo di produzione del farmaco rappresenta al massimo il 5% del prezzo della vendita. Una ulteriore riduzione dei prezzi si potrà ottenere eliminando alcuni passaggi burocratici verosimilmente superflui. Resta la considerazione che questo approccio terapeutico, se gestito con prudenza da mani esperte, che tengano conto di possibili controindicazioni, rappresenta un’innovazione epocale.
L'autore dell'articolo è Medico - Endocrinologo