Avellino: una città invisibile sospesa sul vuoto

Riflessione sul voto in città: tanti elettori non hanno dato alcun credito al lavoro della Procura

avellino una citta invisibile sospesa sul vuoto

Non sarebbe stato più opportuno evitare di sottolineare in blu la scelta della continuità ed avviare per la città, già storicamente ferita, un nuovo corso con donne e uomini nuovi per evitare di fare di Avellino una delle calviniane Città invisibili?

Avellino.  

Il milanese Cesare Beccaria, nonno di Alessandro Manzoni, nel secondo capitolo Dei delitti e delle pene (1764), uno tra i più celebri trattati dell’illuminismo europeo, aveva nitidamente propugnato un concetto di altissima civiltà giuridica: “ogni atto di autorità di uomo a uomo che non derivi dall’assoluta necessità è tirannico”.  Premessa questa di “sinistra”, che allontana il diritto dalla violenza e scaccia con veemenza ogni tentazione giustizialista o generica rappresentazione dell’indignazione come abito buono da indossare nei periodici anniversari della malignità o del moralismo a buon mercato, che così bene sa esibire l’italico costume di fronte alle “cadute” altrui.

Veniamo al senso di questo breve ragionamento, come forse lo definirebbe il principe di Biscari, tutto concentrato sul ripensamento di una constatabile registrazione del significato della parola “Continuità” in relazione alle convenienti motivazioni del binomio gestione/consenso.

Le recenti elezioni amministrative avellinesi innanzitutto hanno messo in evidenza un drammatico, forse non troppo analizzato insieme di sequenze che s’apre a riflessioni non proprio ottimistiche sul terreno della cosiddetta Salute pubblica. In maniera epigrafica si può affermare che tanti elettori finora non hanno dato alcun credito al lavoro della magistratura e degli organi di polizia.

Ci troviamo di fronte ad una clamorosa manifestazione di fobia sociale nei confronti delle istituzioni repubblicane, che simboleggia, con durezza e perversa schiettezza, gli effetti di una virulenta epidemia irrazionalista, priva di consultazioni logiche e quindi di origine interamente emotiva, con connotazioni ribellistiche tipicamente sanfediste. Altre spiegazioni non riusciamo a scorgere nemmeno investigando su sfacciati modelli embrionali d’insorgenza antidemocratica rispetto alle risultanze del voto. Mi verrebbe di ridisegnare il contesto con un titolo già usato da Leonardo Sciascia per una sua raccolta di raffinatissime e pessimistiche considerazioni in forma di diario: “Nero su nero”.

In realtà un’altra ipotesi potremmo percorrerla: il reiterato rifiuto dei cittadini al mantenimento di un ceto politico logoro e parassitario, abile nella navigazione costiera ma del tutto incapace di proposte credibili sul piano della progettazione: un ceto in grado di leggere o di farsi leggere il solo libro del potere.

La lista Davvero - mai avverbio è stato così “presagio” di certezza -, emanazione diretta delle politiche dell’ex sindaco, ancora oggi ai doppi arresti domiciliari, è risultata la più votata esprimendo addirittura 12 consiglieri su 32: la maggioranza, nel segno di una soluzione catartica del recente, ingombrante passato, ha ottenuto complessivamente 24 eletti mentre l’opposizione 8, di cui 4 della lista del PD. Il centro-destra, ispirato dalla rappresentazione del nulla, si è frammentato in più pezzi per poi ricomporsi con furbesca improvvisazione al ballottaggio.

L’exploit del “voglio continuare malgrado tutto”, pubblicamente rivendicato per evitare equivoci nella spartizione d’incarichi e titoli, non lascia spazio a labili letture alternative in quanto ha consentito alla candidata, già vicesindaco della amministrazione ora travolta dalle inchieste giudiziarie, di poter essere eletta sindaco della città attraverso un verdetto irrevocabile sul piano numerico: al primo turno le tre liste di supporto alla sua candidatura, in buona parte ispirate dal sorriso un tempo taumaturgico dell’Innominabile, hanno ottenuto oltre undicimila preferenze. È questo un dato su cui ogni esercizio interpretativo o abile sofisma giuridico devono arenarsi.

Sarebbe decisione angusta ed imprecisa quella di voler riaprire un dibattito ignorando le premesse germinative del risultato finale. Tra gli eletti, è bene ricordarlo, figurano non pochi uscenti tra consiglieri ed assessori, reduci dal quinquennio in parte incriminato.

L’ex sindaco ha conservato quindi una vasca di voti di allevamento dalle dimensioni olimpiche; voti che sono risultati vincenti nonostante l’ordalia mediatica, le immagini in bianco-nero di impropri ed eufemisticamente imbarazzanti trafugamenti di carte, le incalzanti accuse che la stampa ha riportato ed esteso ben oltre le mura cittadine, la ripresa di lacerti di intercettazioni frutto di una naturale infusione di termini dialettali nel canterino parlato regionale, tanto da rendere eclatante il verbo ‘apparare’ nel più classico dei suoi intrinseci significati paesani.

Mi chiedo. Si poteva non reiterare, nella imparziale indifferenza, una sorta di meccanica del destino? Non sarebbe stato più opportuno evitare di sottolineare in blu la scelta della continuità ed avviare per la città, già storicamente ferita, un nuovo corso con donne e uomini nuovi per evitare di fare di Avellino una delle calviniane “Città invisibili” più precarie? Mi riferisco ad Ottavia, città-ragnatela, perennemente sospesa sul vuoto: “sotto non c’è niente per centinaia e centinaia di metri: qualche nuvola scorre; s’intravede più in basso il fondo del burrone”.

Troppe domande probabilmente rispetto ad un paesaggio urbano devastato da decenni d’incuria, di connivenze, di insopportabili carriere politiche, di un radicale fallimento di una schiera di inamovibili e comprimari, costantemente alleati nella conservazione dell’immutabile ibrido.

La sconfitta del cambiamento nasce da queste tragiche premesse ossia dalla sostanziale infondatezza culturale di una classe politica di parvenus, capaci di sopravvivere ad ogni sconfitta esibendo qualità mai riconducibili a guizzi d’intelligenza e di onesta critica ma del tutto in accordo con il sovvertimento di ogni analisi razionale.

Il Partito democratico in questa sgangherata e desolata struttura politica esprime il meglio del fallimento ideale e della reiterazione degli impulsi gestionali, sempre prevalenti su quelli programmatici. La inusitata affermazione elettorale della parodia della shakespeariana “ombra di Banquo” è proprio trascritta nella corrispettiva vittoria di due continuità che si alleano a cominciare dal comune interesse nel non trasformarsi. Continuità quindi a danno esclusivo della città reale, del suo futuro, degli interessi concreti dei suoi cittadini.

Il voto amministrativo di giugno ha ratificato un condiviso modo di vivere di politica, del tutto distante da idee, sogni, utopie che pur devono caratterizzare una classe dirigente moderna, all’altezza del tempo del cambiamento. Un PD vassallo dell’abile reuccio normanno certo è perdente da anni, ma la tutela delle carriere copre i disastri. Cristallizzato il ricambio, si nasconde in soffitta un pur dignitoso esame di coscienza che non potrebbe non tradursi nella nobile pratica delle dimissioni.

Senza forzare l’iperbole, nel salmastro Palazzo di città, in quella che fu la poetica e umanissima Piazza del Popolo prima delle barbare distruzioni affaristiche del post-terremoto del 1980, non escludiamo possa realizzarsi la trovata dell’uovo di Colombo ossia un abbraccio collettivo tra “vincenti” e “perdenti” nel nome della sempre utile “Responsabilità”: un epico e  interessato abbraccio fra naufraghi della zattera della Medusa. Più banalmente una foglia di fico di Amalfi che nasconde solitamente cialtronerie e vergogne inimmaginabili. Intanto Avellino, piccola città di un Mezzogiorno confuso e abbandonato alle sue sconfitte, resta in attesa del passaggio di una cometa: sia il calcio, sia un chiassoso e canoro Ferragosto. “Sospesa sull’abisso, la vita degli abitanti d’Ottavia è meno incerta che in altre città. Sanno che più di tanto la rete non regge”. 

Il destino si avvera: sospesi ben sapendo di vivere sul vuoto. Quindi solo rassegnazione? Non credo. L’intelligenza come risorsa per capire e modificare la realtà e gli uomini può ancora redimerci e sostenerci nel non sopportare, come auspica Simone Weil, «una parte delle bassezze che compongono l’aria che respiriamo».

L'autore è Professore ordinario di Letteratura italiana nell’Università degli Studi di Cassino e del Lazio meridionale