Consorzio di tutela dei vini irpini: "La vita quotidiana come rappresentazione"

Lettera aperta del professore Piero Mastroberardino

consorzio di tutela dei vini irpini la vita quotidiana come rappresentazione

Dal professore Piero Mastroberardino riceviamo e pubblichiamo un intervento sulle ultime vicende del Consorzio di tutela dei vini d'Irpinia

Avellino.  

Le vicende relative al Consorzio di Tutela dei Vini d’Irpinia sono state accompagnate da una narrazione che, almeno presso l’opinione pubblica locale, raramente si è imbattuta nella realtà dei fatti. 
Reputo dunque opportuno un chiarimento, che non ha lo scopo di aprire dibattiti o sollevar polemiche, bensì solo di lasciare alle cronache, a futura memoria, una testimonianza. 
Dal 2003 ad oggi un gruppo di viticoltori si è impegnato nella costituzione e nello sviluppo di un consorzio di tutela in Irpinia. Per anni – mentre alcuni si sforzavano di rappresentare all’esterno il miglior volto possibile di questa provincia – altri, con grossolana doppiezza, ricorrevano ad ogni mezzo per divulgare il verbo di un consorzio di tutela inattivo e inconcludente. 
Sono qui sommariamente elencate, per macro-capitoli, alcune delle iniziative portate a compimento dal consorzio in questi ultimi anni: 
la crescita della base associativa; 
il riconoscimento ministeriale con l’incarico “erga omnes” per le attività di tutela, valorizzazione, promozione e vigilanza sulla filiera; 
l’organizzazione e attuazione delle attività di vigilanza sulle denominazioni di origine protette; 
le attività di promozione sul territorio (tra cui le edizioni annuali dell’evento Ciak Irpinia, con presenza in loco di stampa internazionale);
le attività di promozione extraterritoriali (partecipazioni annuali a Vinitaly di Verona, ProWein di Düsseldorf, Merano Wine Festival, ecc.); 
le modifiche ai disciplinari di produzione di tutte le denominazioni tutelate (Fiano di Avellino DOCG, Greco di Tufo DOCG, Taurasi DOCG, Irpinia DOC);
i programmi di investimento PSR Regione Campania, in corso di attuazione;
le attività di formazione e informazione ai viticoltori.
Solo la consapevolezza della enorme mole di lavoro svolta negli anni da una manciata di persone volenterose a beneficio di tutti avrebbe dovuto stimolare il senso del pudore. 
Invece, come prassi vuole, è accaduto il contrario. Le genti d’Irpinia restano esposte ai quotidiani sermoni di personaggi che, mentre candidamente dichiarano e/o testimoniano la loro totale improvvisazione in materia, ripetono a disco rotto che “oggettivamente” questo sodalizio non ha fatto nulla, che è ora di dare spazio ai giovani esponenti della fazione ‘nuova’, composta di ‘piccoli e belli’, soggiogata dai ‘grandi e cattivi’ e tenuta lontano dalla stanza dei bottoni. 
L’obiettivo finale – oggi conseguito – di quella strategia demolitiva era l’occupazione delle posizioni di vertice di quel consorzio. Poco male, fin qui. Solo l’accensione di un ricordo: gli esponenti più attivi di quella compagine hanno mosso analoghi attacchi nei confronti di vari presidenti che si sono succeduti fin qui (ricordo l’ingeneroso trattamento riservato a Milena Pepe e Antonio Buono), che prima dell’attuale uscente sono stati allo stesso modo messi alla berlina agli occhi dell’opinione pubblica, con identici contenuti e modalità. Oggi è toccato a Stefano Di Marzo, al quale sono rivolte – da me ma, ne sono certo, anche da tutti coloro che, in buona fede, hanno creduto e credono nei valori di questa terra – le congratulazioni più vive, insieme a un abbraccio affettuoso, per il modo in cui ha diretto il Consorzio di Tutela dei Vini d’Irpinia in questi anni e per i risultati che ha conseguito e che consegna alla storia di questa provincia e dei suoi vini prestigiosi. 
Chi scrive ha provato a far comprendere che la retorica del confronto democratico tra fazioni avverse, sventolata da certuni con fare ipocritamente buonista, non è la soluzione più idonea per un organismo che deve svolgere attività di tutela, vigilanza, valorizzazione e promozione in una filiera oggi estremamente articolata e variegata. 
In ossequio a quel principio, i consigli direttivi che si erano fin qui succeduti erano stati, infatti, composti da figure rappresentative delle diverse anime della filiera, mai nella logica della conventio ad excludendum. 
È d’altronde evidente che scatenare conflitti interni e produrre lacerazioni in una compagine così eterogenea genera reazioni respingenti ed esclusive, che hanno il solo effetto di indebolirne la rappresentanza. 
Questi appelli sono caduti nel vuoto, fino al voto. Oggi, come per incanto, consumata la radicale frattura, sembrano tornare di moda e, guarda caso, partono proprio da chi quella frattura ha voluto e generato… 
Ma, al di là degli schieramenti, quali interessi quel consorzio dovrebbe oggi rappresentare?
Vi sono imprenditori che continuano a ritenere che il vino in Irpinia possa e debba esser posizionato tra i prodotti di pregio, puntare a generare valore, restare ancorato alle radici territoriali attraverso le denominazioni di origine, essere venduto solo in bottiglia. 
Li potremmo annoverare tra ‘i classici’, o – se preferite – ‘i tradizionali’. 
Vi sono d’altro canto operatori che, per esigenza o convinzione, negoziano esclusivamente vini sfusi, altri che rinunciano al riferimento di origine geografica e si dedicano alla produzione di vini generici, altri ancora che stanno producendo in tetrapak; c’è chi si accinge a realizzare impianti su grande scala per il confezionamento dei vini in bag-in-box (sacca di polietilene contenuta in una scatola di cartone), chi compra abitualmente vini sfusi e li imbottiglia con il proprio brand; si sono sviluppate figure di operatori intermedi che si limitano a produrre per conto terzi, o a imbottigliare per conto terzi, e poi una enorme quantità di cantine i cui titolari nulla sanno del proprio vino, essendo lo stesso ideato e prodotto da consulenti esterni operanti in luoghi lontani da questa terra, con tutto quel che ne consegue. 
Potremmo definire questo secondo gruppo come ‘gli innovatori’. 
Notoriamente, chi scrive propende per l’opzione n.1, ma non è questa la sede per analizzare come quelle posizioni siano distribuite tra i diversi schieramenti… è un esercizio a cui il lettore interessato, se vorrà, potrà dedicarsi per suo conto e scienza. 
Ciò che rileva è che tutti questi attori operano e rivendicano uno spazio. E quel consorzio sarebbe deputato a trovare una sintesi in modo da tracciare le linee del prossimo sviluppo, un ideale ponte tra passato e futuro. 
Si dirà che le multicolori pratiche prima elencate sono da tempo ben presenti in tanti altri distretti vitivinicoli italiani e non. È così, con la differenza che qui si fa ma non si dice, abilmente dilatando il divario tra ribalta e retroscena. 
La compagine che ha lavorato per rompere l’unità di questa filiera ha fatto passare – con destrezza – l’immagine che dalla propria parte fossero schierate tutte e soltanto le ragioni di piccoli produttori di pregio, bisognosi di sostegno pubblico perché più deboli sui mercati, glissando su alcuni ‘trascurabili’ dettagli. 
E invece i fatti narrano una realtà assai diversa. 
Quella fazione è stata ed è sostenuta da due grosse concentrazioni imprenditoriali agroindustriali: una del vino, la più pesante in zona in termini quantitativi, con capitale investito superiore a 70 milioni di euro, fatturato superiore a 20 milioni, interessi in cantine dislocate in diverse regioni italiane; l’altra dell’olio, che lavora prodotti di varia provenienza, elaborati e imbottigliati in loco, con capitale investito prossimo a 50 milioni di euro e un fatturato di circa 65 milioni, che ha poi realizzato una cantina, attraverso una propria controllata, oggi adibita in buona parte a spazio per eventi. I dati sono indicativi, in quanto desumibili dalle ultime pubblicazioni ufficiali disponibili. 
Parlare della fazione del “piccolo è bello” dovrebbe, pertanto, quanto meno far sorridere. 
Ai due succitati macro-soggetti si è aggiunto un terzo attore industriale, la cui attività prevalente è la commercializzazione di macchine e impianti per l’enologia, venduti – tra l’altro – anche a tante imprese della stessa filiera irpina: dunque un fornitore dei soci del consorzio di tutela, il cui proprietario ed amministratore unico è designato ad assumerne la presidenza (!). Questi andrà a rappresentare imprenditori le cui aziende non sono affini alla propria per scopi perseguiti, strutture, attività svolte, mercati serviti: essi siedono invece sulla sponda opposta, quali suoi potenziali contraenti. Vi saranno magari casi di aziende che da quella società ricevono assistenza nella progettazione e nella gestione di pratiche di finanziamento agevolato finalizzate all’acquisto di quelle stesse tipologie di macchine di produzione. Può persino capitare che un’impresa si trovi legata al fornitore di impianti da rapporti commerciali e finanziari e dall’esigenza di perfezionare l’incasso dei contributi necessari a far fronte a quelle voci di debito. Di opportunità virtù… si potrebbe dire, con licenza. 
Esponenti di questa costellazione avrebbero anche una liaison con alcune testate locali, le stesse che in questi anni hanno operato come braccio armato di tale compagine, in modo da demolire, giorno dopo giorno, l’immagine pubblica del consorzio di tutela attraverso la pervicace divulgazione di due messaggi: 
1) il Consorzio non ha fatto nulla, dunque è tempo di seppellire la gestione precedente e i loro artefici condannandoli alla damnatio memoriae (omettendo che in essa vi fossero più che coinvolti anche i propri beniamini), per consegnarlo nelle mani del ‘nuovo che avanza’ (gli stessi propri beniamini di sopra, ripassati con candeggio); 
2) il Professor Piero Mastroberardino è una presenza opprimente per la filiera, da neutralizzare ed espellere, al fine di consentire alla stessa di imboccare la via di un radioso e ineluttabile futuro, che per sua sola colpa oggi non si realizza. 
Miseria dello storicismo, per citare un filosofo a me caro…
Le due posizioni, peraltro, negano sé stesse. 
La prima, già smentita dal precedente elenco di attività, non si sarebbe dovuta proprio porre a persone di buon senso, per onestà intellettuale: questi soggetti, in quanto membri già cospicuamente presenti nell’uscente consiglio di amministrazione, andrebbero infatti ritenuti quanto meno corresponsabili di quanto il gruppo dirigente del consorzio ha (o non ha) fatto in questi anni, quand’anche fossero rimasti semplici spettatori dell’operato altrui, atteso il ruolo – propulsivo o di censura – che ai consiglieri di amministrazione inderogabilmente attribuisce l’ordinamento giuridico. E, di conseguenza, sarebbero dovuti finire nel mirino di certa stampa locale alla stregua di altri, per pudore se non per coerenza. Il che, manco a dirlo, non è accaduto: quella stampa ha chirurgicamente estratto una parte del consiglio uscente, per issarlo sulla croce ed esporlo al pubblico ludibrio, e ha altrettanto chirurgicamente separato la parte a sé cara, promuovendola come ‘il nuovo che avanza’, nella migliore tradizione della peggiore retorica politica. 
La seconda posizione – comprovata da una ridda di episodi gravi, precisi e concordanti, alcuni dei quali più avanti si riportano a mo’ di esempio – si commenta da sé: evidentemente una famiglia che ha creato in questa terra, in alcuni secoli di continuato impegno, prospettive di benessere per un comparto intero, che oggi conta svariate centinaia di operatori, fa ombra al ‘nuovo che avanza’. E allora si è messa in campo la più subdola delle strategie offensive, tesa a screditare – a livello provinciale, stante la gittata di quell’armamentario bellico – con inusitata violenza l’immagine pubblica di chi la impersona. E pensare che sarebbe bastato chiederlo con garbo: l’interessato avrebbe di buon grado tolto il disturbo, come più volte ha pubblicamente dichiarato… 
Da queste mirabili premesse si è fatta scaturire la tesi della necessità del cambiamento.
L’epilogo ha offerto un finale da thriller, posto che, dopo tutto questo schieramento di forze in un lato del campo, pare che l’esito dello scrutinio abbia visto prevalere una fazione sull’altra per una manciata di voti, una quindicina su tremila espressi, ovvero lo 0,5% del capitale rappresentato, e tra mille ‘infortuni’ di percorso, sui quali è meglio stendere un pietoso velo. Ma tanto basta per affermare il principio. 
In conclusione, qualche considerazione personale. 
I fatti esposti mi hanno oggi sollevato dal gravoso impegno di dover condividere un cammino con chi sul mio nome ha gettato fango senza tregua, ritegno, vergogna. Sì, perché il caso vuole che fino a ieri io sedessi al tavolo con le stesse persone che divulgano questi lusinghieri apprezzamenti su di me e sul mio lavoro, e che oggi vengono spacciate per le interpreti dell’auspicata svolta. 
Si pensi che, all’indomani di questa tornata elettorale per il rinnovo del direttivo consortile, un referente familiare di una delle aziende rappresentate ai loro massimi livelli sia nel consiglio uscente, sia nel consiglio prossimo entrante, ha confessato baldanzoso a mezzo social come l’intento di questa complessa operazione fosse quello di “liberare l’Irpinia dalle nazi-cantine”. 
Così, accidentalmente, il disegno è svelato: tutt’altro che unitario, mosso piuttosto da sentimenti ostili, colpiva altri soggetti di volta in volta esposti, ma con un unico reale obiettivo. 
Ma anche questo accanimento lascia il tempo che trova, anzi è utile a corroborare quanto ritengo stia emergendo agli occhi dell’opinione pubblica provinciale. 
Paradosso vuole che, liberandosi dell’odiato nemico, lo abbiano alfine essi stessi liberato, moralmente svincolato dall’onere di portare la bandiera di una comunità produttiva che non riesce a porre ai margini comportamenti che poco sembrano avere a che fare con la valorizzazione delle nostre risorse.
Basti pensare che, alla vetta più elevata del buon gusto, c’è chi identifica le produzioni vinicole della nostra terra ostentando un teschio in etichetta, simbolo che di norma è posto sui contenitori di sostanze tossiche o velenose che, ove ingerite, provocano morte, evocata peraltro anche nel nome del prodotto. Manco a dirlo, anche questi esemplari sono schierati sul versante della compagine del ‘nuovo che avanza’.
Questa testimonianza si conclude qui. 
Lascio ai sedicenti ‘buoni’ gli oneri e gli onori. Ai diffamatori il solo disagio di rispondere delle loro azioni, essendovi obbligato per la tutela del buon nome della mia famiglia. 
Chi ha avuto la benevolenza di seguire il mio periodare sin qui avrà ora compreso appieno il senso del titolo di questo mio contributo – “La vita quotidiana come rappresentazione” – che rinvia all’opera pubblicata nel 1956 dal sociologo americano Erving Goffman. 
Con i migliori auguri a chi ama il vino e ancora spende il suo impegno per difenderlo dalla barbarie dell’incultura.

Professor Piero Mastroberardino