"Siamo sui tetti... nessuno mi ha ascoltato. Contiamo i morti"

Gli allarmi di Siniscalchi, la lava e i Cava che aiutavano i Graziano

Il ricordo di quei drammatici momenti vissuti da testimoni di una tragedia epocale.

Quindici.  

 

di Federico Festa 

Non c'è onore o gloria nel ricordare ai vivi cosa portò, quel giorno, alla morte undici persone. C'è la tristezza d'essere stati testimoni e, a distanza di vent'anni, doverlo raccontare con l'amarezza di una involontaria sentinella della memoria. L'eredità più dura è rimettere le mani nel ciarpame di un lavoro che, per i più, ha pochi fronzoli: inchioda a una disadorna scrivania e a un piccolo Macintosh Lc. Alla solitudine di una redazione che solo dopo ore si sarebbe rianimata e alle difficili, routinarie, telefonate a caccia dei sindaci, seguiti, giorno dopo giorno, come in un incubo dal quale mai ci si svegliava, perché fornissero spunti, notizie, repliche a polemiche: insomma, roba da scrivere. (GUARDA LO SPECIALE CON FOTO D'EPOCA E VIDEO)

Antonio Siniscalchi, allora sindaco di Quindici, era uno di quelli che meno si prestava al ruolo e raramente rispondeva. Quel giorno capitò di sentirlo. Con preoccupazione mi ammonì: “... quali notizie vuoi... non smette più di piovere... noi siamo sui tetti e abbiamo paura per il peggio”.

Erano giorni che lanciava allarmi, che c'era il rischio di frane e che si doveva intervenire in montagna. Siniscalchi comprava e vendeva nocciole, aveva anche pagato uno perché con un megafono, come ancora oggi s'usa per annunciare comizi elettorali, avvertisse dei possibili rischi la popolazione: pochi gli avevano dato retta. Molti lo avevano bollato come visionario.

La pioggia non dava tregua da tre giorni. Era minuta, insistente, del genere che penetra in profondità, molto in profondità. Così fu fino a rompere la saldatura tra la roccia calcarea di Pizzo d'Alvano e le polveri piroclastiche che più eruzioni del Vesuvio avevano accumulato in più strati su tutte le cime della Campania: è lava che noi umani traduciamo in fango.

“Siamo sui tetti” uno che fa cronaca non può ignorarlo. Prende e parte. Va. Era primissimo pomeriggio. Il viaggio fu un'odissea, una circumnavigazione attraverso l'autostrada, Baiano, Lauro e poi Quindici.

Erano sui tetti veramente. La prima ondata era venuta giù ed aveva interessato la zona di Quindici dalla quale si accede percorrendo il budello che taglia per tutta la sua lunghezza via Santa Cristina, prima che questa si biforchi o per Moschiano o Quindici, zona campo sportivo. Se n'era mossa un bel po'. Aveva già mietuto vittime, spostato come un fuscello, ma lasciandola teatralmente intatta, un'intera chiesetta scesa verso valle per almeno una sessantina di metri. Ma nessuno sapeva del destino di nessuno

La cosa più agghiacciante sono stati gli occhi delle persone, la paura che vi si era stampata. Uomini che stringevano le mani ad altri uomini per darsi coraggio. Il primo provvedimento fu quello di transennare tutte le strade che davano accesso al paese. Se ne occuparono i vigili urbani e i pochi volontari presenti in zona o già giunti sul posto. Forze esigue rispetto a quello che si sarebbe mosso di lì a poco.

In sé la lava è lenta. Scende. Quella di Quindici lo faceva con un fronte alto metri, quasi un abbraccio sornione. Ne capisci la forza quando impatta con le opere dell'uomo, schiaccia le case come gusci di noci e s'incunea nei vicoli e le strade crescendo in altezza, rubando spazi e aria ovunque. Non lo fermi quel mostro scuro e denso, massacra le cose e la speranza fintanto che ha la forza, fintanto che trova ostacoli. Ce lo siamo ritrovati di fronte e possiamo raccontarlo perché lo abbiamo visto scendere come un sipario che si richiudeva su via Casamanzi: nessun film, nemmeno il più spettacolare, potrà mai riprodurre quella cosa che si muoveva con quella forza, perché erano occhi puntati su vita vera e non ingannati da una pellicola.

Ecco cosa significava “siamo sui tetti”. Ecco perché non c'è onore o gloria nel ricordare ai vivi perché il destino ha voluto che le auto di vigili del fuoco e di alcuni privati s'incastrassero in un intreccio di lamiere facendo da tappo e lasciando che il fango ingoiasse la vita dell'unico vero eroe che a Quindici si ricorda: la farmacista Olga Santaniello che da sola osò sfidare i clan e i potenti Graziano, all'epoca del boss Pasquale Raffaele ancora in vita.

Quel giorno anche la guerra tra i clan a Quindici ha firmato una tregua. Dei poliziotti, una volta raggiunto il Commissariato di Lauro (unico posto da dove si poteva – via radio – comunicare con la redazione) raccontavano di aver visto uomini dei Cava lanciare sul fango materassi perché gente dei Graziano si salvasse buttandosi dai balconi.

Quel giorno lo Stato ha mostrato tutti i suoi muscoli mandando in poche ore l'impossibile in termini di mezzi e di soccorsi a Quindici. Lungo l'autostrada, quando stavamo per rientrare per scrivere ciò che avevamo visto dopo ore di angoscia, per chilometri e chilometri c'erano mezzi rossi dei vigili del fuoco e mezzi verdi dell'esercito.

Quel giorno lo Stato sbagliò lato, grazie a un pugno di giornalisti Quindici aveva comunicato meglio la sua paura, ma la vera tragedia s'era consumata dall'altra parte di Pizzo d'Alvano, a Sarno, con centinaia di morti. Da quelle parti il sindaco non vendeva nocciole.