Scavava a mani nude per cercare i nonni sotto il fango

I giorni dopo la tragedia. La dignità dei sopravvissuti. I due eroi che hanno evitato la catastrofe

I fischi a Mancino. Casamanzi devastata. I ritardi a Sarno. Quel fax della Regione: metteva in guardia i sindaci dieci ore dopo la tragedia. Cronaca di una tragedia annunciata, sei mesi prima.

Quindici.  

 

di Luciano Trapanese

Un'intera contrada sparita nel nulla. Casamanzi è sotto i nostri piedi, coperta da due metri di fango e detriti. Spunta qualche pezzo di casa. I resti di una chiesa. Di fronte c'è il Pizzo d'Alvano, la montagna maledetta. Ferita e minacciosa, con uno squarcio nel fianco: da lì sono scivolati a valle centinaia di migliaia di metri cubi di “lava”. Il fango ha sepolto anche Sarno, Siano, Bracigliano e San Felice a Cancello. Per la conta dei morti sarebbero stati necessari giorni. 137 le vittime solo a Sarno. Undici a Quindici. 178 case distrutte, 450 danneggiate. Un disastro. (GUARDA LO SPECIALE CON FOTO D'EPOCA E VIDEO)

E' l'alba del sei maggio di venti anni fa. I contorni di quella tragedia sono ancora incerti. A Quindici si teme il peggio, da Sarno le notizie sono ancora frammentarie. I soccorsi si sono concentrati quasi tutti sul paese irpino. Protezione civile, vigili del fuoco, forze dell'ordine, esercito. Centinaia di volontari. A pochi passi da noi c'è un ragazzo. Scava a mani nude. Non vuole l'aiuto di nessuno. Sotto il fango c'era la casa dei nonni. Che sono ancora lì. Sicuramente morti. Li estrarranno qualche giorno dopo. Scava senza piangere, senza neppure guardare chi gli sta intorno. Nel suo dolore muto c'è la dignità di un popolo che l'Italia ha compreso solo dopo quella tragedia. Quindici per tutti era il paese della sanguinosa faida tra Cava e Graziano. La nazione conoscerà anche la forza, il coraggio e la dignità di questa gente.

Il fango sulla primavera di Quindici

Piove ancora. Una pioggia sottile, il cielo è plumbeo, i torrenti in piena. Il sindaco Antonio Siniscalchi guarda la devastazione. Non trattiene le lacrime. Accanto a lui c'è Pasquale Picone, all'epoca capo del commissariato di Lauro. E' grazie a loro se a Quindici i morti non sono stati centinaia. Nel primo pomeriggio del cinque maggio, le prime avvisaglie della catastrofe. Dal versante nord est del Pizzo d'Alvano si stacca una frana che sfiora le case in contrada Fosso Cerasole. Qualche ora dopo un'altra colata invade il centro del paese. Questa volta ci sono i morti: Marilena Casu, 34 anni, agente di polizia, Tullio Avelli, 26 anni, tabaccaio ed Esterina Mercolino. Tra le vittime anche Olga Santaniello, farmacista ed ex sindaco di Quindici. Un simbolo per la comunità. Con lei era iniziata la “primavera quindicese”. La rivolta contro i clan. La forza di dire no alla camorra.

Con il megafono: andate via, frana tutto

Quei morti hanno evitato un'ecatombe. Siniscalchi e il commissario Picone capiscono che la situazione può solo peggiorare. Continua a piovere, a dirotto. Dalla montagna può venire giù altro fango. Raggiungono Casamanzi, e con un megafono invitano i residenti a lasciare le abitazioni. Bussano a tutte le porte. Non si può aspettare. Molti vanno via. Altri, soprattutto i più anziani, decidono di restare, nonostante il rischio.

Nel frattempo i soccorsi non arrivano. Ci sono solo i vigili del fuoco e le forze dell'ordine. La prefettura si mobilita, con il compianto Renato Stranges. Ma dalla Regione, silenzio.

L'epilogo della tragedia nella tarda serata. Casamanzi viene cancellata dalla lava. I morti in totale saranno undici.

E' l'alba del giorno dopo. Siniscalchi è lì, osserva quella devastazione. Indossa – e lo farà per tutto il periodo dell'emergenza – un giubbotto arancione. Non lo toglierà, neppure quando a Quindici arriverà il presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, il presidente del Consiglio, Romano Prodi e quello del Senato, Nicola Mancino, che sarà contestato da una folla che ha ancora paura.

A Sarno non scatta l'allarme: è una tragedia

Siniscalchi fissa il ragazzo che scava. L'osserva con occhi lucidi. Non dice una parola. Poi guarda in alto, la montagna ferita.

A Sarno andrà diversamente. La popolazione non è stata avvertita. Alle 17 fango e detriti travolgono abitazioni a Curti e Viale Margherita. E' il campanello d'allarme. Ma viene ignorato. Tre ore dopo altre frane sommergono le frazioni di San Vito ed Episcopio. Lì si conterà il maggior numero di morti. In tanti vengono soccorsi e trasportati nell'ospedale Villa Malta. E nella notte altro fango distruggerà proprio quell'ospedale, uccidendo medici, infermieri e gli stessi feriti scampati alla prima frana. Nel pomeriggio altre colate hanno sommerso le strade di Bracigliano, Siano e San Felice a Cancello.

Sei mesi prima l'appello ignorato

E' stato un disastro annunciato. Nel novembre dell'anno prima, sempre dal Pizzo d'Alvano, una frana aveva già ucciso. In tanti ricordano i pellegrinaggi del sindaco Siniscalchi a Napoli, uffici della Regione. «Fate qualcosa, lì viene giù tutto». A stento gli hanno concesso udienza. Di provvedimenti neppure l'ombra. Pochi mesi dopo il disastro.

Nei giorni immediatamente successivi alla tragedia i riflettori dei media mondiali sono stati tutti puntati su Quindici e Sarno. E tutte le voci istituzionali hanno pronunciato con enfasi lo stesso, identico, ritornello: non vi lasceremo mai soli. Dopo due settimane nelle zone disastrate rimarrà solo il fango, le macerie, la disperazione dei sopravvissuti e polemiche infinite. Si sono aperte anche due inchieste giudiziarie. Una a Sarno, per i ritardi nei soccorsi. L'altra, della procura di Avellino, per cercare di dare un nome ai presunti responsabili della tragedia annunciata.

Il terzo giorno sono arrivati a Quindici il procuratore Mario Caputo, il sostituto Sergio Amato e il responsabile della sezione di piggi, l'ispettore Luigi D'Anna. C'è una foto che li ritrae, insieme al commissario Picone. Alle loro spalle una chiesa devastata dalla frana. Era cara a Raffaele Cutolo, per anni latitante proprio nella zona di Quindici. Nei giorni del disastro volle ricordarla scrivendo in cella una poesia.

Dall'inchiesta avellinese – per disastro colposo -, non è venuto fuori granché. Tanti nomi, nessun responsabile. La solita inestricabile matassa di ruoli e competenze, che si sovrappongono fino ad annullarsi. Tutti colpevoli, nessun colpevole.

I funerali delle vittime si sono svolti in un clima surreale. Sotto un sole primaverile che ha indurito il fango e reso ancora più complessa la ricerca di eventuali dispersi.

Qualche organo di informazione lancia l'allarme camorra: i clan non vorrebbero perdere l'occasione di fare affari con la rimozione di detriti e macerie. La polizia segnala la presenza di sciacalli nelle zone devastate. Il Centro operativo comunale (il Coc), viene allestito in una scuola elementare. Il comune si sposta in un vicino prefabbricato. E lì sarà ospitato il presidente della Repubblica. In quelle ore si capisce la gravità di quello che accaduto a Sarno.

La Regione avvisa i sindaci: dieci ore dopo

A infuocare le polemiche c'è una notizia sconcertante. Dalla Regione sarebbe stato inviato un fax ai comuni a rischio frana. Ma dieci ore dopo la tragedia. Questo il testo: «Segnalasi che la conformazione orografica e le caratteristiche geoambientali del vostro territorio comunale in concomitanza di particolari eventi piovosi in corso in queste ore, possono determinare situazioni non prevedibili di instabilità con conseguenti eventi franosi catastrofici. Tanto si comunica ai fini dell’attivazione di ogni misura necessaria atta a garantire la salvaguardia della pubblica e privata incolumità». Una non commentabile pezza a colori.

La pioggia ha gonfiato le coltri piroclastiche

Nei giorni che hanno preceduto la frana una perturbazione africana ha provocato precipitazioni ininterrotte per 72 ore. Anche l'inverno era stato particolarmente piovoso. Nella piana di Sarno le stime pluviometriche parlarono di 150 mm. Oltre 240 mm nelle zone collinari. E 400 mm sul Pizzo d'Alvano. Quantità notevoli. Cifre che sono inferiori solo ai 500 mm in una notte che causarono la disastrosa alluvione di Salerno (400 morti).

Nel maggio di 20 anni fa molti hanno scoperto l'esistenza delle coltri piroclastiche. Sul Pizzo d'Alvano sono spesse quasi sei metri, formate nel corso dei millenni con le diverse eruzioni del Vesuvio. Quel materiale si è saturato d'acqua per le piogge consistenti. I regi lagni ostruiti, l'abusivismo, la cementificazione senza regole, hanno impedito all'acqua in eccesso di defluire a valle. E così quelle coltri – che la gente del posto chiamava e a ragione “lava”: è comunque un prodotto del vulcano -, sono scivolate su Quindici e Sarno, lasciando scoperta la nuda roccia del Pizzo d'Alvano. Una frana che ha raggiunto i venti chilometri al secondo di velocità. Due milioni di metri cubi in totale. Ha distrutto tutto quello che ha incontrato.

I soldi non ci sono e il rischio è ancora lì

Venti anni dopo difficile stabilire se queste zone siano state messe in sicurezza. Lo Stato ha speso ottanta milioni per la costruzione di 18 chilometri di canali. Per molti quella sarebbe stata la soluzione. Ma si dimenticava un particolare: i costi di manutenzione. Tenere libere quelle vie di sfogo per la montagna satura d'acqua prevede un lavoro continuo, personale e mezzi tecnici. Spese troppo alte e i soldi non ci sono. Risultato: quei canali sono spesso ostruiti. Proprio come i regi lagni in quel maledetto cinque maggio. Le tragedie non insegnano nulla. E nella zona rossa – ad alto rischio – si continua ad abitare. Proprio lì, ai piedi del Pizzo d'Alvano, dove sono ancora visibili i segni di quella ferita, di quel pezzo di terra assassina scivolata a valle. Nei giorni di pioggia, a Sarno e Quindici, è difficile non guardare verso quel monte, ricordare quello che è accaduto e sperare che non succeda di nuovo.