di Carlo Brando

Quando è comparsa quella maledetta avevo 23 anni. E' arrivata dal nulla, da chissà quale bastardo difetto del mio dna, e non è andata più via.

Vivere con lei è difficile, a volte impossibile, soprattutto quando poi decide che la tua pelle non basta e deve aggredire anche le articolazioni. Una a una, soprattutto le più piccole. Straziandole di dolore.

Quella maledetta è la psoriasi. La chiamano “malattia dei forti”, solo perché fa schizzare a mille le tue difese immunitarie, e – anche sei sei malato – in realtà non ti ammali mai. Soffri, ma ti schifano anche le influenze e i raffreddori.

Hai una salute di ferro, ma un nemico implacabile che ti corrode dentro. Sulla pelle e nelle ossa. E se ti lasci andare, spacca anche il resto: le certezze, il rapporto con gli altri, il tuo equilibrio. Per condurti dritto tra le braccia di un'altra bastarda sempre in agguato: la depressione.

E' arrivata con una piccola macchia all'attaccatura dei capelli, sulla fronte. Un po' di prurito, e quella crosticina bianca.

La diagnosi l'ha formulata un dermatologo alto abbronzato, brizzolato e che puzzava d'alcol. Ha scosso la testa. «Mi spiace ragazzo». E pensavo, mi spiace cosa? Un po' di prurito e una crosticina, che cavolo può essere di così grave. «Dovrai conviverci con questa cosa per tutta la vita, hai la psoriasi».

Mi ha prescritto una crema gialla, puzzolente e che macchiava tutto il macchiabile. La macchia non è andata via. Altro giro, altro medico. Altra crema. Questa volta al catrame. Ancora più puzzolente. Nessun risultato.

Poi il diprosalic, proprio mentre la psoriasi faceva la timida comparsa anche altrove. Gambe, gomiti, schiena. Infine è arrivata l'estate. E la soluzione più efficace: sole e mare. Psoriasi ko. Ma solo per poco.

Torna, torna sempre. E ci fai quasi l'abitudine. Quasi. Perché andare a mare per un ammalato di psoriasi può essere molto complicato. Sembra che tutti stiano lì a guardarti. E la pelle arrossata, quando si libera da quelle croste bianche, un po' impressiona. Ti senti gli occhi addosso. E magari ascolti i pensieri di chi ti sta intorno: sarà contagioso? Ma che malattia è? E quando parte l'orchestra, ti rivesti e vai via. O ti cerchi un angolo di spiaggia dove non c'è nessuno. Un supplizio. Per te. E per qualche sventurato che ha deciso di accompagnarti a mare. Se non sei forte ti chiudi a riccio. Se non sei forte rinunci alla cura migliore: sole e mare. Peggiorando tutto.

A cominciare dai rapporti con chi ti sta intorno. A partire dalla tua ragazza. Che nonostante tutto ti manifesta il suo affetto. Ma che immagini mentre guarda quelle maledette croste bianche. E ti scatta il blocco, maledetto anche quello.

Ma comunque avevo imparato a conviverci. Resistere d'inverno, qualche bagno in solitaria all'inizio dell'estate, e poi via. Come se la psoriasi non ci fosse.

Infatti non c'era, o meglio: non era visibile. Ma tanto lo sapevo: lei era sempre lì, in agguato. Pronta a ricomparire.

Quello che non sapevo era che la bastarda non stava lì nascosta a non fare niente. Macché. Aveva puntato alle mia articolazioni: mani, piedi, spina dorsale, nuca. Stava preparando la seconda offensiva. All'epoca lo ignoravo, ma sarebbe stata terribile. Altro che qualche chiazza bianca sulla pelle.

Si è presentata con un dolore all'inguine, poi all'anca. Fastidioso, non doloroso. Ma comunque, addio calcetto, addio corse. Raggi, risonanze, esperti. Diagnosi: tante, tutte diverse. Naturalmente sbagliate.

Nel frattempo il dolore aumentava. Piedi e mani gonfie, collo bloccato, un dolorosissimo torcicollo perenne. E andava sempre peggio. Difficoltà a camminare, anche a respirare senza sentire male. E il sonno straziato da dolori ad ogni movimento. Non riuscivo neppure a prendere in braccio mia figlia appena nata.

Andavo avanti con due, a volte tre bustine di Aulin al giorno. Un incubo. E nessuna via d'uscita.

Fino a quando, grazie anche alle insistenze di mia moglie, ho deciso di andare a Roma. Nell'Istituto dermatologico italiano (Idi). Un centro che funzionava così bene che hanno deciso di chiuderlo.

Ero molto sfiduciato. Convinto che non avrebbero mai risolto il mio problema. Tutte le visite precedenti erano state un fallimento. C'era anche chi – un professionista – mi aveva consigliato pillole con grasso di pescecane...

Sono entrato nella stanza di un medico anziano. Ha osservato i risultati delle analisi (ves e tas in particolare). Poi mi ha guardato incuriosito: «Può spiegarmi come ha fatto ad arrivare fino a Roma? Lei non potrebbe muoversi dal letto». Beh, in fondo aveva ragione. Davvero non lo sapevo. Risultato: ricovero immediato.

Per una settimana mi hanno ricoperto di pomata. La psoriasi è quasi andata via. Ho conosciuto altri pazienti. Della mia età, più giovani, anche ragazzini. Gente adulta. Tutti con un problema simile al mio, spesso molto più grave.

Ho promesso a tutti che avrei aperto un camping a Marina di Camerota, il «Crosta Club», dove avrebbero potuto esibire la loro psoriasi con orgoglio, senza vergogna. Hanno riso. Ho riso anche io, ma per altro. C'era una cura. Per le macchie certo, ma soprattutto per il dolore. Un farmaco biologico, appena messo in commercio. Costosissimo. E all'epoca somministrabile solo in ospedale.

Sono tornato a casa ed è iniziata la cura. Embrel (la mia salvezza), più Methotrexade. Un mese dopo ero nuovo: niente psoriasi, ma soprattutto niente dolori. Tutta l'angoscia accumulata in silenzio negli anni l'ho sfogata una sera, in bagno. Un lunghissimo pianto, a dirotto. Liberatorio. Che ha sciolto anche l'ultimo pezzo di dolore.

Da allora la mia vita è cambiata. Ma dipende solo e soltanto dall'Embrel. Se ho il farmaco, niente dolori. Altrimenti, tutto come prima. Dritto dentro quell'incubo.

Oggi è la giornata mondiale della psoriasi. Una malattia diffusissima e ignorata. In Campania sono 70mila i pazienti che non possono accedere a cure adeguate (non hanno avuto la mia fortuna). Perché non ci sono soldi. Colpa della crisi.

Eppure, esistono poche malattie debilitanti come l'artrite psoriasica. Ma è un male che – evidentemente – non merita considerazione. Quasi fosse una questione estetica, e non una malattia capace di portare alla paralisi e nei casi più gravi alla morte.

Nel frattempo, si vive di Embrel. Sperando che duri, e fingendo di ignorare che nessuno conosca gli effetti che può avere sull'organismo l'uso prolungato di questi farmaci. Del resto, mi basta avere un presente. Il dolore aveva ucciso anche questo.

Per il futuro c'è tempo.