di Simonetta Ieppariello
«Non avrei mai pensato di vivere una vita simile, divisa in due dalla guerra e dalla pace, dall’odio e dall’amore e dal sangue, che scorre lasciando nella vita di un popolo solo briciole e macerie. Poi la rotta che attraversa l’inferno. La nave. La morte che ti sfiora. E lo spettro della nuova schiavitù, questa è la tragedia di noi profughi, temuti e odiati in terre nuove e in fuga dalla guerra, dalla disperazione e dalla fame».
Fa un certo effetto sentire queste parole da chi in Africa ne ha passate tante, troppe. Ha attraversato la morte sfiorandola, continuando a viverla. Amin Mahamed ha 31 anni e parla undici lingue. La sua è una storia diversa da quella di tanti profughi in fuga dall’Africa e approdati in Italia per sopravvivere tra l’indifferenza. Amin lavorava nelle ambasciate, è figlio di un politico. Ha lavorato in quella inglese e quella di Zambia. Solo per citarne alcune. Nella sua Libia prima delle guerre ha potuto imparare, studiare, crescere sereno.
E’ figlio di un politico. Poi in quel febbraio maledetto di cinque anni fa tutto è cambiato. Ancora e seppur potesse sembrare impossibile: in peggio.
E’ arrivata un’altra dittatura nuova e più spietata tra bombe e rapimenti, torture e vessazioni fisiche e mentali di ogni tipo. Eppure quello che ha vissuto Amin seppur ci provassi a raccontarvelo è «inimmaginabile».
«Ricordo che la cosa peggiore che poteva capitarti non era morire, ma essere rapito e costretto a combattere. Una violenza atroce, fisica e mentale. Venivi letteralmente costretto a uccidere - racconta con malcelato dolore -. E’ peggio di morire».
In Libia i profughi del Corno d’Africa sono sempre stati gli ultimi: hanno perso il lavoro a causa della guerra, l’unica possibilità di rifugio e salvezza l’hanno trovata scappando. Chi ci è riuscito. Pochissimi come Amin che è riuscito a stiparsi di nascosto su un barcone della speranza. «Altrimenti non mi avrebbero mai fatto partire. Non ce lo permetto. Lo ricordo ogni notte quel porto, quella barca, la mia velocità a nascondermi tra i tanti. Sono di colore, potevo farcela a sembrare uno dei 180 in attesa. Eravamo a Zanzur quel viaggio disperato di speranza durò tre giorni e una notte». Un ricordo nitido di quei giorni sulla barca in balia del mare, che diventò cattivo fino quasi ad ucciderli.
«Poi l’arrivo in Italia fu la schiarita dopo un inferno profondo. Arrivammo a Lampedusa. Ci accolsero con kit e scarpe, giubbotti e cibo».
Quando arriva Amin viene accolto all’hotel Europa di Venticano. Ci restai un anno e dieci mesi. Diventai un mediatore culturale grazie a Ciriaco Bevilacqua e Alessandro Forlenza. Non potrò mai essere abbastanza grato a queste persone. Mi hanno permesso di vivere la mia vita nuova. In Italia. Parlo tante lingue i dialetti africani, molti arabi. La mia salvezza. Ho subito capito che volevo integrarmi. Volevo conoscere il sistema e vivere il paese in senso positivo, concreto, costruttivo. Ho subito cercato di darmi da fare e conoscere tante lingue è stato il mio patrimonio di riscatto».
E così è stato. «Io sono un uomo fortunato da Venticano sono arrivato a gestire in pochi anni il centro di Prata Principato Ultra, della stessa associazione, di via Annunziata. Sono felice di quanto la vita mi ha offerto. Poi è arrivato il regalo più bello Antonella, l’amore della mia vita che ha completato la mia vita. Siamo legatissimi, innamorati e felici. Certo, ancora oggi quando siamo l’uno accanto l’altra ci guardano con tanta curiosità. Ma poco importa. A Prata sono perfettamente a mio agio, integrato Ci conoscono tutti e voglio un bene grande a tutti».
Parlando con Amin è un passaggio fare qualche domanda sulle questioni serie ed attuali dell’accoglienza. Mi risponde con untoriso dicendo: mi fa male vedere i miei fratello chiedere l’elemosina fuori ogni market. Gli dico che devono lavorare, mi rispondono puntualmente che il lavoro non c’è. Sono tempi duri e tristi per tutti, ma dobbiamo fare qualcosa tutti insieme. oltre il colore della pelle e gli orientamenti religiosi. Dobbiamo riscattare il nostro mondo che sembra essere tornato indietro di molti anni Mi chiedo perché dopo tante guerre e dolore, la storia dell’umanità sembra ripetersi drammaticamente nei suoi profili peggiori, nelle sue manifestazioni più crudeli. Ho vissuto la guerra, il dolore, la fame, la rabbia, la violenza cieca che uccide donne e bambini. Ogni giorno c’era qualcuno di cui all’improvviso non si sa più nulla. La comunità internazionale tace, la transizione è ancora troppo delicata e i giornalisti non li vogliono. Cosa dire. Non auguro tutto questo a nessun popolo. A nessuna persona di qualsivoglia colore di pelle o credo religioso. Chi parte da queste terre martoriate non ha scelta. Hanno passato anni di viaggi e prigionia, sono disperati. Che speranze possono avere? Per loro non c’è scelta. E l’unica cosa che possiamo fare è anche la più utile: dare speranza e sostenere la fede. Qualsiasi essa sia, perchè il mondo migliori».