di Luciano Trapanese

Roma. Un ristorante dedicato alla cucina sarda. Tra piazza Bologna e l'università La Sapienza. 1985. Un giorno di novembre, dolce e grigio come solo può esserlo un autunno romano. Avevamo appena assistito a una lezione di Storia del Teatro, uno dei tanti corsi di Lettere. Dalla commedia dell'arte eravamo finiti, non ricordo come, a Ibsen e alle sue donne. Una lezione che ci era piaciuta tanto, così come tutte le lezioni del professor Ferruccio Marotti. Monica – una compagna di studi – insisteva: mettiamo in scena “Casa di bambole”. Luca, che era un regista, aveva voluto conoscermi dopo una lezione di antropologia culturale. E aveva intenzione di propormi una parte in una commedia di Eduardo che stava per allestire (ma solo per il mio evidente accento napoletano, non certo per le doti di attore che sapevo di non avere). Proprio non pensava a Ibsen e alle sue algide (in apparenza), protagoniste. Discutendo di tutto questo siamo entrati nel ristorante.

A un tavolo, sulla destra, era seduto proprio il professore. Con altre due persone, una coppia. Gli abbiamo rivolto un timido saluto, ha riposto con un segno della mano. Ci hanno salutato anche i suoi commensali. E solo in quel momento ci siamo accorti che erano Dario Fo e Franca Rame. C'era un tavolo libero proprio accanto a loro. E da quel momento in poi abbiamo quasi smesso di parlare. Ci siamo messi ad ascoltare, come pettegoli eccitati. Discutevano di cucina, di vini, di teatro, commedia dell'arte, Arlecchino. E di politica. Il dialogo era quasi sempre sostenuto da Fo. Con quella dialettica avvolgente, compulsiva, solo apparentemente sconclusionata, che viaggiava veloce da uno spunto all'altro. Continuamente. Monica si sentiva sempre di più Nora, la protagonista del dramma di Ibsen. Ha tentato più volte di distoglierci da quell'origliare famelico. Ma senza riuscirci. L'ultima sua frase che abbiamo sentito è stata: «Sono anche bionda». Come se tutte le svedesi dovessero essere per forza bionde. Luca ha sussurrato: «Si ma Casa di bambole è stato scritto ad Amalfi, sono sicuro che Nora era bruna». Una frase che non aveva senso. Ma che ha zittito – ed era difficile – la compagna di studi.

Abbiamo ascoltato il prof e i due artisti per quasi un'ora. Poi ci siamo alzati. Il professore ci ha fermati, visibilmente divertito. «Vi è piaciuta la lezione?». Monica ha chiesto (inevitabile): «Ibsen?». «No, macchè, questa...». Abbiamo tentato di nascondere l'imbarazzo con un altro sorriso. Ma evidentemente non ci siamo riusciti. Allora ha aggiunto: «A volte non c'è nulla di male nell'origliare, magari ora sapete qualcosa in più su Arlecchino...».

Era vero. Comunque, per la cronaca, Luca non ha mai rappresentato Casa di Bambole. E neppure la commedia di Eduardo. E io non ho mai fatto l'attore. Ma quella lezione rubata a quello che sarebbe diventato un Nobel non l'abbiamo mai dimenticata. L'anno dopo ho rivisto Dario Fo e Franca Rame, si esibivano in uno spettacolo all'Augusteo di Salerno. Ma ero arrivato tardi, e ho trovato solo posti in galleria. Due ore a maledire la mia pigrizia e a ricordare quella involontaria lezione nel piccolo ristorante di cucina sarda.