di Luciano Trapanese
Immigrazione clandestina e terrorismo islamico. Una equazione molto evocata, ma spesso non dimostrata. Fino a oggi. Fino all'arresto di Mohamned Khemiri, tunisino, indagato dai magistrati della procura di Santa Maria Capua Vetere per associazione a delinquere e reati legati all'immigrazione clandestina. Ma il tunisino è finito nel mirino anche di un altro ufficio inquirente, quello di Napoli, per terrorismo.
Due mondi e un anello di congiunzione. Inquietante. E la consapevolezza che la radicalizzazione degli islamici nel nostro Paese non è così diversa rispetto alla Francia o al Belgio. Il meccanismo è sempre lo stesso. Potenzialmente anche le conseguenze. In Italia. In Campania.
In una intercettazione il tunisino, 41 anni, residente a San Marcellino, lo ha dichiarato in modo esplicito: «Sono isissiano finché avrò vita. E se morirò vi esorto a farne parte». E non erano solo parole. Dimostrava la sua aperta adesione al Califfato anche sui social, aveva un vessilo artigianale del Daesh, e foto e materiale di propaganda dei terroristi. Eppure, tutto questo, non era servito a convincere il gip del tribunale di Napoli ad arrestarlo. La richiesta della procura è stata rigettata. Fino a ieri, quando è spuntata un'altra indagine. Questa volta legata all'immigrazione clandestina e condotta dai magistrati casertani.
Ora c'è una domanda che non possiamo non porci. Molti di voi ricorderanno il periodo delle Brigate Rosse. Gli anni di piombo. Ebbene all'epoca se si veniva trovati con materiale riconducibile al gruppo terrorista si finiva in cella. Le manette scattavano anche ai polsi di quelli beccati a inneggiare alle bierre con scritte spray sui muri. E con un'accusa gravissima: favoreggiamento e incitamento all'insurrezione armata contro lo Stato.
Chissà perché, invece, per intervenire contro un tipo che in ogni dove manifesta la sua adesione all'Isis sono necessarie prove inconfutabili della sua appartenenza al sedicente Stato Islamico. Come se quello stesso attivismo mediatico, quel parlare in certi termini dei tagliagole di Raqqa, quell'inneggiare con convinzione ai martiri stragisti, non fosse – in questo contesto e dopo tutto quello che si sta verificando in gran parte dell'Europa e non solo -, estremamente pericoloso. Molto più di una scritta spray con la stella a cinque punte.
L'inchiesta casertama, quella sull'immigrazione, avrebbe accertato che Khemiri è il capo di una banda di trafficanti di esseri umani. Sono stati i Ros a scoprire l'intera organizzazione. Estesa, ramificata e capace di incidere. In cambio di denaro, Khemiri e i suoi sodali (in tutto sono state otto le persone arrestate), predisponeva e faceva rilasciare da aziende tessili compiacenti, contratti di lavoro e buste paga fittizie. Tutte in favore di altri magrebini. In questo modo gli immigrati ottenevano il permesso di soggiorno per motivi di lavoro regolarizzando la loro presenza in Italia.
Non è difficile immaginare che un personaggio di questa caratura, radicalizzato, con una indubbia capacità di tessere rapporti, e in grado di assicurare documenti e un finto lavoro ai connazionali, avrebbe potuto con estrema facilità dare vita a una cellula Isis nel cuore della Campania.
La sua radicalizzazione è stata documentata, passo dopo passo, dai carabinieri. E' iniziata il sette gennaio del 2015, dopo dopo il massacro a Parigi dei giornalisti della rivista Charlie Ebdo. Quando scriveva sui social: «Quel giornalista che ha fatto le vignette che ledono l'Islam senza alcuna pietà, ebbene lui ha avuto ciò che si merita». Una documentazione che potrebbe rivelarsi importante, anche per capire le dinamiche che conducono un islamico neppure tanto praticante, un criminale, ad abbracciare la causa estrema del Califfato.
E' in queste sacche nascoste, legate con l'immigrazione clandestina, a contatto con un certo tipo di malavita locale, che si nasconde forse il pericolo più grande. Vite ai margini, facilmente influenzabili, senza niente da perdere. E un capo capace di muoversi, con un forte ascendente e magari in contatto con intermediari vicini al comando in Siria. L'arresto di Khemiri deve far aprire gli occhi. Convincere tutti che non siamo né immuni, nè protetti. Può accadere qui quello che è accaduto altrove. Senza dover ricordare dell'algerino, arrestato nella Piana del Sele per un caso fortuito, ritenuto parte integrante del commando che ha seminato morte e terrore al Bataclan.