Quando i Visigoti giunsero in prossimità di Volturara, gli abitanti del posto furono spaventati da quell'ombra gigantesca che si ergeva alle loro spalle. Ancora avvolta dalla foschia e dal polverone che il suoi movimenti tumultuosi sollevavano. Le urla degli uomini che cercavano disperatamente di tener ferma quella cosa, squarciavano la calma della piana. Il clangore delle loro armi, era sommerso da ruggiti che gelavano il sangue nelle vene. Quell'ombra portava morte e si sarebbe abbattuta presto su di loro.
Un drago, come in quelle terre avevano sentito narrare solo dagli anziani. Venuto dal nord. I Visigoti lo avevano catturato e lo nutrivano con lo stretto indispensabile, così che fosse sempre affamato e pronto a scatenare la sua furia. I barbari lo soggiogavano grazie al maleficio di uno stregone, che guidava la carovana montando un cavallo così magro che si potevano contare tutte le sue costole.
I Visigoti razziarono il paese, stuprando le donne, torturando vecchi e bambini com'era nel loro costume. Quando ebbero finito, prima di andare, nascosero gran parte del loro tesoro nella grotta di un monte impervio che sorgeva poco distante dal paese irpino. E ci misero a guardia la bestia. Ogni giorno, i barbari rimasti a Volturara, prendevano due giovani del posto e due vitelli, e li lanciavano nella grotta per sfamare il mostro. In tanti, animati dalla disperazione, provarono a sottrarre i propri figli alla furia del drago. Ma finivano divorati a loro volta.
Finché un giorno, il mattino portò con sé un uomo che veniva da lontano. Era alto, molto più di quanto gli irpini avessero mai visto. E una lunga capigliatura dorata gli scendeva sulle spalle. La pelle, segnata dagli anni e dalle battaglie, rivelava vistose cicatrici che non riuscivano però a scalfire minimamente la solidità del suo corpo. Se il suo respiro regolare non avesse rivelato la vita, nessuno avrebbe potuto distinguerlo dalle statue del dio Marte che sorvegliavano gli ultimi templi romani sopravvissuti alla furia dei barbari.
L'uomo, che si chiamava Gesio, veniva anche lui dal nord. E aveva provato la furia dei Visigoti, verso i quali serbava un antico e furioso rancore. Quando vide quella giovane ragazza minuta che si bagnava al ruscello, avvolta in un lungo panno marrone, si ridestò dai suoi pensieri. Lei non cercò di trattenere il suo pianto disperato, nemmeno quando incrociò lo sguardo dell'uomo. Gesio, per la prima volta dopo anni, si dimenticò del suo viaggio. E di chi lo aspettava al di là delle montagne.
Fermato il cavallo, strappo' parte del lungo mantello che gli copriva le ampie spalle, e lo porse alla fanciulla per asciugarsi le lacrime. La giovane, in un primo momento fu tentata di fuggire. Diffidava degli stranieri della cui furia portava ancora i segni addosso. Non poteva dimenticare quelle mani sudice che violavano prima lei e poi sua sorella, la cui giovinezza era stata rapita prima di sbocciare. Eppure, c'era qualcosa in quegli occhi fieri e velati di malinconia, che la spinsero a rimanere ferma. E ad accettare l'aiuto di quell'uomo che veniva da lontano.
“Grazie” - disse con voce sommessa. Prima che il racconto delle sue disgrazie abbattesse, come fiume in piena, gli argini del pudore e della diffidenza.
“Quel mostro – concluse - ha divorato mio cugino”.
“Quando sarà la prossima offerta?”
“Domani. Al sorgere dell'alba”.
Lui la salutò con un cenno del capo, e risalendo a cavallo, se ne andò com'era venuto. Lei non provò a fermarlo. Sapeva che non l'avrebbe rivisto mai più.
Gesio seguiva da mezz'ora la piccola carovana di uomini che scortava i giovani e i due vitelli al macello. Quando furono in prossimità della grotta, uscì fuori dal suo nascondiglio e si lanciò sul soldato più vicino recidendogli con la spada la carotide. Gli altri due, turbati da quell'improvvisa apparizione, misero mano alle armi, lasciando le catene che tenevano fermi i due ragazzini che si allontanarono verso Gesio.
“Sapete tornare indietro?”
Il più piccolo - che in paese chiamavano pel di carota per i capelli arruffati e arancioni - annuì. E i due sparirono nel bosco come lepri. I guerrieri rimasti non provarono nemmeno a seguirli, la loro attenzione era tutta per quello straniero gigantesco. Lo scontro durò pochi minuti. Un affondo, Gesio che un lieve saltello evitava il fendente, e a sua volta affondava il colpo mortale. Poi gli scintilli delle armi che cozzavano. Le due spade che si incrociano ancora, Gesio che con un rapido colpo del braccio sbilanciava l'ultimo guerriero rimasto. E poi spegneva la luce dei suoi occhi per sempre.
Anche da dove si trovava, Gesio riusciva ad udire degli ansimi profondi che provenivano dalla cavità della roccia. Intorno all'antro, l'aria era più calda. La natura intorno era stata risucchiata da quel buco di morte. Poca erba rada, ingiallita dal caldo. Le rocce e silenzio. Per quanto cercasse di sporgere la testa all'interno, Gesio non riusciva a guardare lontano più di due palmi. Prese allora una corda di canapa che portava attorcigliata nella sella, e se la legò al bacino. L'altra estremità ben stretta ad un tronco. Quindi si incamminò nella grotta.
Man man che procedeva, il budello di roccia diventava sempre più stretto e il calore aumentava. Così come quel respiro profondo che sembrava provenire direttamente dal fondo della terra. Poi ci furono dei rumori sinistri. Un ruggito che scosse le pareti. Della polvere veniva giù dal soffitto. Il mostro sapeva di non essere solo. Quella cosa si avvicinava con velocità poderosa. Gesio poteva udire la terra scuotersi e piegarsi, il lungo corpo sbattere contro le pareti di pietra, eccitato dalla preda che ormai non poteva più fuggire. Il drago era sempre più vicino. Il calore che proveniva dalla sue fauci opprimente. I rumori sempre più continui. Ancora un po' e si sarebbero incrociati. La spada si era già alzata a formare una mezzaluna col corpo. Lo scudo copriva stomaco e fegato.
Una scontro violentissimo, la testa del mostro che si infrangeva contro lo scudo che però non si spezzava mostrando la sua provenienza. Gli era costato caro quello scudo. Forse troppo. Un viaggio che durava anni e che sarebbe finito oltre quelle montagne. O, in quella grotta
I fendenti non riuscivano ad andare a bersaglio. Per quanto Gesio fosse veloce, le tre teste della bestia, come in una danza di morte, riuscivano a sfuggire alla lama. Il solo occhio che aveva al centro della fronte, saettava da un angolo all'alto. Nulla sfuggiva a quello sguardo infernale.
La battaglia andava avanti da tempo, le gambe di Gesio erano pesanti come macigni. La bestia intuì la stanchezza, con un movimento laterale sbilanciò il guerriero verso destra. Mentre un'altra testa lo colpiva sul fianco, spezzandogli il respiro. Poi le fauci del mostro andarono a stringere l'armatura, sollevando il corpo dell'uomo. E sbattendolo al suolo. Gesio avvertì i sensi mancare, ma quelle ombre che da tempo gli affollavano la testa, gli ricordarono che il viaggio non era ancora finito.
Tenne la spada su, con un ultimo sovrumano sforzo, e mentre il mostro lo sollevava per poi sbatterlo di nuovo a terra, lanciò l'arma trafiggendogli l'unico occhio. Le presa si allentò e Gesio fu lasciato cadere a terra mentre il drago urlava di dolore. Senza quell'occhio, la paura si stava impadronendo di lui. Il guerriero riprese la spada e concluse la sua opera infliggendo il colpo mortale alla bestia. Poi, stremato, perse i sensi. Quando li riaprì, la grotta non era più avvolta nelle tenebre. Decine di bauli traboccanti d'oro riempivano lo spazio. E dove erano cadute le teste del mostro, ora c'erano tre profonde voragini.
Il guerriero lasciò il tesoro al suo posto e i volturaresi poterono prenderlo quando lui era già lontano. In quelle voragini, ancora oggi, si può udire il rumore del sangue della bestia che cola. In onore di quella battaglia indimenticabile, la zona fu chiamata la “Bocca del Dragone.”
Questa è una delle leggende dedicate ai draghi più famose della Campania. Con il racconto delle gesta di Gesio apriamo la nostra quinta puntata sulle leggende della regione. Prima di procedere con la lettura, vi invitiamo a leggere anche le altre puntate. (Streghe, lupi mannari, fantasmi, sirene e principesse)
IL DRAGO CHE CREO' ISCHIA
Quando la battaglia fra Titani e Dei terminò, niente nell'universo era più come prima. I vecchi padroni del mondo, confinati da Zeus e dai suoi fratelli nelle viscere della terra, meditavano vendetta. Gea, furiosa per la sorte toccata a Crono spodestato proprio da Zeus, armò suo figlio Tifeo contro il nuovo padrone dell'Olimpo.
Dei Titani, Tifeo era uno dei più spaventosi. Un drago gigantesco la cui furia era capace di abbattere intere montagne, armato dalle potenza del fuoco. E quando le ali solcavano il cielo, la furia degli uragani finiva per sradicare foreste e abitazioni.
La sfida fu terribile e cruenta. Durò anni, pendendo ora da un lato ora dall'altro. Si giocava il destino dell'universo, e la furia della battaglia finiva per avere ripercussioni anche sulla vita degli essere umani: tempeste che si alternavano ad eruzioni ed altri sconvolgimenti climatici. Fino a quando Zeus, armato della forza dei fulmini, riuscì ad avere la meglio su Tifeo.
Sollevò un'isola e la scagliò addosso al gigante. Facendolo precipitare per sempre nel mare. E condannandolo a reggere quel lembo di terra che oggi si chiama Ischia. Tifeo non placò mai la sua furia. E si dice che proprio dalla sua presenza fossero generate le eruzioni vulcaniche che caratterizzavano la zona.
In memoria di quella leggenda, oggi Ischia conserva una divisione del suo territorio che corrisponde alle parti del corpo di Tifeo. Si pensi alla zona di “Panza” o di “Testaccio”.
ANTONELLO, L'AMMAZZADRAGHI DI SAN FRANCESCO
Il drago del bosco di Perrotta aveva finito per bloccare tutte le carovane di mercanti che dal Sannio si recavano in Irpinia. Un giorno, una delle carrozze, trasportava il giovane cugino del signore di Montefusco. Il drago distrusse il convoglio e divorò il giovane.
Quando la terribile notizia arrivò alle orecchie di Antonello Castiglione, signore di Montefusco, questi decise di vendicare a tutti i costi la morte del ragazzo. Dipinse sulle pareti del suo castello l'effige del drago, ed iniziò ad addestrare i suoi cani affinché balzassero sul nemico. Poi si impegnò giorno e notte per prepararsi allo scontro. Aiutato dai contadini del paese che lo supportarono nell'addestramento.
Ben presto la voce dell'impresa che stava per partire si diffuse anche nei comuni attigui. E in tanti iniziarono a sperare in quel giovane temerario.
Quando Antonello giunse nella radura, il drago era intento a sbranare le carcasse di due cavalli. Il rumore delle sue fauci che trituravano le ossa degli animali, fece tremare il polsi al giovane e abbaiare rumorosamente i cani che si scagliarono sul mostro. Anche Antonello si lanciò alla carica tenendo dritta davanti a se la sua lancia. Il drago spiccò il volo, e il vento generato dalla sue ali fece imbizzarrire il cavallo che portava il signorotto. Poi si avventò sui cani, divorandoli.
Antonello rimessosi in piedi, attese l'attacco del mostro, e poco prima che questo lo colpisse, balzò di lato colpendolo con la spada di striscio. Il sangue coprì l'erba.
La battaglia continuò per ore, fino a quando Antonello, stremato, sembrava sul punto di soccombere. Fu allora che nell'aria risuonarono le campane della vicina chiesa di San Francesco. Il cavaliere invocò l'intercessione del Santo promettendo di cedere parte dei suoi averi al monastero, se avesse avuto la meglio. Improvvisamente riprese le forze e riuscì a prevalere sul mostro. Era il 15 giungo 1421, giorno di San Vito, ancora oggi festa tanto attesa a Montefusco.
La leggenda vuole che però, le ferite ricevute da Antonello, fossero così gravi che il cavaliere spirò qualche giorno dopo la sua impresa. Il corpo fu seppellito con mille onori nella chiesa di San Francesco, e le spoglie del drago furono appese alle pareti dell'edificio. Prima di essere trasportare, per ordine del viceré, a Napoli, affinché tutta la Campania non dimenticasse quella straordinaria impresa.
Andrea Fantucchio