di elleti

Questa smania nazionalista che scuote l'Europa non sembra contagiare l'Italia. Sarà perché il movimento che coagula intorno a sé la protesta contro l'establishment, i 5 Stelle, non mette al centro “Dio, patria e famiglia”, ma il cittadino. Sarà perché l'unico partito che si professa nazionalista è la Lega Nord (fino a ieri convintamente secessionista, chi se le scorda le ampolle con l'acqua sacra – e inquinata – del Po). Sarà infine perché i partiti che hanno nel nome riferimenti decisamente patriottici – Forza Italia e Fratelli d'Italia -, non hanno al momento nessun appeal. Di fatto, nel nostro Paese non ci sono né i Farage, né i Le Pen, e neppure l'onda di ultradestra che agita Germania, Olanda, Austria e Grecia (dove Alba Dorata, seppur dichiarata fuorilegge, resta molto forte).

Il sentimento antieuropeista che aleggia in Italia poggia su altri capisaldi: le ondate migratorie e la crisi economica, che si ritiene non affrontata in modo adeguato da una Ue in mano a tecnocrati e sottomessa al potere delle banche. Non circola molto lo slogan (che in chiave britannica ha caratterizzato la campagna elettorale pro Brexit), «l'Italia agli italiani». Slogan che ricorda in modo inquietante il motto della Nco di Cutolo quando voleva sbattere lontano i marsigliesi, «Napoli ai napoletani».

L'assenza di questo nazionalismo è un dato che – come si diceva una volta – segnala il nostro scarso «amor patrio»? E' il segno evidente che siamo diventati davvero europei? Chissà. Di certo da noi non c'è traccia dello sciovinismo francese, delle nostalgie imperialiste britanniche, dell'orgoglio teutonico, del naturale indipendentismo dei Paesi scandinavi.

Siamo peggiori? Non crediamo. Il nostro nazionalismo si manifesta in modo prorompente quando gioca l'Italia. O meglio: quando gioca e vince. Per il resto, siamo campioni del mondo nell'autoflagellarci (per molti ogni altrove è meglio dell'Italia).

Se c'è una cosa che è cambiata negli ultimi decenni è il rapporto con l'Inno di Mameli. Tra il '70 e il '90 del secolo scorso (quando scriviamo così ci sembra di parlare dell'800), è stata più volte proposta la sostituzione di quel canto. Ritenuto dalla intellighenzia una ignobile e inascoltabile marcetta. Signori, dicevano gli intellettuali dell'epoca, ci rappresenta molto di più «Va pensiero». L'aria di Verdi è sicuramente un capolavoro. Avremmo fatto – come si sosteneva – una figura migliore. E parte dell'opinione pubblica era anche favorevole. Ma non s'è fatto mai nulla. Ebbene, provate ora a dire che l'inno bisogna cambiarlo. Che “Fratelli d'Italia”, è il peggio del peggio del repertorio bandistico italiano. Si rischierebbe il linciaggio. E il ruspaiolo Salvini, uno che fino a qualche anno fa avrebbe usato il tricolore in sostituzione della carta igienica, facendo finta di ignorare quel verso indigesto («schiava di Roma Iddio la creò»), si agiterebbe in ogni talk show possibile, per condannare l'infedele che osa mettere in discussione il sacro inno.

Ora, cambiarlo è una sciocchezza. Di certo non è così elegante. Non avrà la stessa “presa” della Marsigliese, ma è il nostro inno. E, in fondo, ci rappresenta.

Oltretutto ci sono voluti molti anni per convincere gli atleti della nostra nazionale a cantarlo. Da quando le telecamere ripresero l'attaccante dell'Inter, il grande Ivan Zamorano, intonare a squarciagola l'inno cileno (mondiali del '98). Tutti si chiesero, di fronte al mesto silenzio degli azzurri: e perché noi no? Per un po' di tempo i nostri hanno “imbrogliato”. Aprivano solo la bocca. Poi hanno iniziato a fare sul serio. E oggi Buffon può di certo definirsi uno dei migliori interpreti della Mameli song.

Quindi cantiamo un inno ultrapatriottico («siamo pronti alla morte, l'Italia chiamò»), ma non siamo ultranazionalisti.

Il tricolore spunta nelle occasioni sportive (quando si vince), ma siamo storicamente esterofili. Siamo tendenzialmente europeisti, ma odiamo l'Ue (almeno una parte degli italiani). I soliti paradossi che ci fanno grandi e piccoli insieme. O forse, semplicemente, non ci attacchiamo né ai simboli e neppure alle cartine geografiche, la nostra italianità è anche questo, un indelebile marchio nel dna. A volte invisibile, ma presente. Che ci fa amare l'Italia anche quando ne parliamo male. O quando in Italia non viviamo più.

Comunque sia, questa sera si gioca. E contro uno storico nemico calcistico. E siamo sicuri che prima del triplice fischio molti di voi intoneranno l'inno che nessuno più osa mettere in discussione.