di Mariateresa Grasso

Stare in famiglia, tornare in famiglia, sentirsi come in famiglia, sono espressioni che utilizziamo per indicare relazioni, contesti che ci fanno stare bene, contesti rassicuranti, affettivi, autentici, in cui possiamo essere noi stessi. Ma è davvero sempre così? Joachim Trier nel film “Segreti di famiglia” ci racconta di un padre con due figli (Jonah sposato e neopapà, e Conrad, adolescente), che si trovano ad elaborare la perdita della moglie e madre, Isabelle, fotografa di guerra. Il marito e Johan conoscono la verità, che la donna è morta suicida, mentre Conrad sa che la causa della morte è stata un incidente. Il ragazzo era troppo piccolo quando la madre è morta per sapere davvero come sono andate le cose. Il film racconta della decisione del padre di dire la verità a Conrad visto che presto un giornale pubblicherà un articolo con la storia di Isabelle, ma soprattutto racconta della difficoltà del padre di parlare al figlio. Questa difficoltà non è legata esclusivamente al dolore della perdita e alla paura di dare un nuovo dolore al figlio, ma alla resistenza che l’uomo ha a confrontarsi con la realtà del suo rapporto con la moglie, e con i figli, prima ancora che Isabelle morisse. I flashback del film ci presentano rapporti familiari dove nessuno sembra condurre la vita che vorrebbe, nonostante ci sia affetto sincero tra loro. Isabelle è divisa tra un lavoro che la appassiona, e che in parte è anche pretesto per stare lontano dalla famiglia, e il sentimento di mancanza della famiglia. Il marito vorrebbe la moglie vicina a sé, ma non riesce ad assumere una posizione chiara ed attiva rispetto a questo desiderio. Johan si è costruito una famiglia, ma non gioisce per questo, anzi tradisce la moglie con l’ex fidanzata e le dice molte bugie. Isabelle tradiva il marito. Ma non sono i tradimenti i veri segreti di famiglia, né i comportamenti manifesti di ognuno di loro, quanto piuttosto l’incapacità di ognuno di chiedersi veramente chi è e cosa vuole. Per poter vivere appieno la vita è necessario che la nostra identità sia solida, altrimenti possiamo continuare a fare progetti, a mettere su famiglia, ma ci sentiremo sempre nel posto sbagliato. Nelle generazioni passate le famiglie tradizionali, patriarcali o matriarcali, erano i punti di riferimento principali della crescita, i luoghi delle regole più che dell’autenticità. Oggi ciò che è cambiato nel concetto di famiglia non è solo la sua forma, ma anche il suo fine. In famiglia cerchiamo benessere, ma affinché questo sia reale è indispensabile “faticare” per costruirlo. Nel film tutti sembrano preoccupati per Conrad, ragazzo adolescente, introverso, che passa molte ore a giocare con i videogiochi, sembrando più interessato alla realtà virtuale che a quella reale, ma a ben guardare, Conrad è l’unico personaggio che riesce davvero a vivere il suo presente. Il ragazzo si identifica con i personaggi dei videogiochi non per fuggire dalla realtà, ma perché in questo modo si sta sforzando di costruire la propria identità, la propria personalità ancora in formazione. Vive la sua adolescenza, prova ed agisce le sue emozioni, come la rabbia per la professoressa, amante del padre. Si innamora di una ragazza di scuola a cui vuole dare se stesso, andando oltre le apparenze. Le regala infatti un video che lui stesso ha creato. Un video in cui c’è tutta la sua emotività, un video in cui non vuole apparire diverso da ciò che è. Per il ragazzo l’importante è esprimere la propria autenticità, rappresentare la realtà e non sforzarsi di dover divertire per forza, sebbene questo lo esponga al rischio di essere rifiutato. La ricerca di se stesso permette a Conrad di accettare con forza la notizia, appresa casualmente, della vera causa della morte della madre, a dispetto della preoccupazione del padre e del fratello maggiore, che ancora non sono riusciti a parlare con lui. Avere rapporti familiari autentici è un problema identitario e non affettivo. Se sappiamo chi siamo sappiamo come e quando parlare e possiamo anche avere segreti, ma questi non saranno distruttivi né per sé né per gli altri.