di Luciano Trapanese
Il cielo terso, Quindici in lontananza. Una splendida giornata di giugno. Il cimitero blindato. Tra i noccioleti e il Pizzo d'Alvano, la montagna maledetta che qualche anno prima ha ucciso undici persone e raso al suolo parte del paese dove per anni si è consumata una delle più sanguinose e durature faide di camorra, quella tra i Cava e i Graziano.
Il camposanto blindato. Polizia e carabinieri ovunque per l'epilogo della strage delle donne. I funerali di Clarissa Cava, la figlia 16enne del boss Biagio Cava, e Maria Scibelli. L'altra vittima, Michelina Cava, sorella del capoclan, maestra elementare, è stata sepolta il giorno prima a Marzano di Nola. La cerimonia che è finita con il pestaggio di un cameraman.
Qualche poliziotto ha avvisato i cronisti: “Tenetevi alla larga, non siamo nella possibilità di fornirvi protezione”. Altri hanno seguito consigli utili: “State vicino a noi, con la camicia fuori dai pantaloni, come per coprire la pistola d'ordinanza. E niente taccuini, telecamere e macchine fotografiche”. E' quello che abbiamo fatto, osservando con discrezione un vero funerale di camorra. Nessuna messa, solo la benedizione delle bare e qualche parola del sacerdote. Nessuna lacrima, nessuna disperazione. Come dire: nessun segno di debolezza. I Graziano devono sapere che ci hanno colpito, ma siamo qui. Più forti di prima, più uniti di prima.
La stessa innaturale compostezza che ha contraddistinto il boss. Biagio Cava non poteva saperlo che era intercettato. Che quel telefono in una cella del carcere di Nizza glielo lasciavano usare solo per intercettare le sue conversazioni. O forse no. Lo sapeva benissimo. Al punto che non ha mai rivelato al cellulare niente di niente. O meglio, niente di importante per le indagini sul clan. A chi gli comunicava della strage, della morte della sua figlia prediletta, di sua sorella, delle condizioni gravissime dell'altra figlia, la 19enne Felicia (costretta per quelle ferite alla sedia a rotelle), il boss ha risposto con un lungo silenzio. Il dolore, la rabbia, la disperazione, erano tutte lì. In quel silenzio, che significava tutto. Che urlava muto anche la sua voglia di vendetta. Ma lo faceva senza parole.
C'è un sole tiepido che accarezza la cappella di famiglia dei Cava. Gli uomini da una parte, le donne dall'altra. Poche frasi, dette a bassa voce. Evitando lo sguardo di poliziotti e carabinieri. Non certo per timore, ma per dimostrare che “voi non ci siete”.
Non possono sapere, nessuno può in quei momenti, che qualche giorno prima, il 26 maggio, in una sera di primavera, mentre è in corso lo spoglio elettorale nel vicino comune di Lauro, si è consumato uno degli ultimi efferati eccidi di quella faida iniziata nel 1972. Tutti si aspettano la vendetta, la risposta. Ma si teme anche altro, una nuova violentissima offensiva dei Graziano, proprio mentre il clan rivale barcolla abbracciato al suo lutto e il leader riconosciuto è lontano, in una cella francese.
Quasi mai i responsabili dei delitti della faida sono stati arrestati. L'omertà, il silenzio totale dei parenti delle vittime, la consapevolezza che “l'unica giustizia ce la facciamo noi”, ha coperto per anni anche il minimo indizio. Non questa volta. Per la prima volta i Graziano hanno agito d'impulso. Senza pianificare. Spinti dall'odio feroce. E per la prima volta sono state colpite le donne, che per tutti sono state la vera anima della faida. Non poteva essere altrimenti, in una zona fortemente matriarcale, dove anche boss come Salvatore 'e Clelia, portano nel nome il riferimento alla madre e non al padre.
Quella sparatoria in via Del Balzo, nel centro del paese, ha lasciato troppe tracce. E qualche ferito. Ma non solo. I Graziano hanno anche commesso un altro errore, mettendo da parte la consueta riservatezza: subito dopo l'eccidio si sono abbandonati a telefonate di giubilo, “le abbiamo sterminate”, con annesso brindisi e bottiglie di spumante stappate. Avrebbero dovuto immaginare di essere intercettati. Hanno fornito invece la prova finale della loro colpevolezza. In cella finirono (ma con esiti processuali diversi), Luigi Salvatore Graziano, la moglie Chiara Manzi, i figli Adriano (l'erede designato), Antonio e un poliziotto, Antonio Mazzocchi.
Decimato il gruppo di fuoco della famiglia. Non era mai accaduto.
Quel primo giugno però, nel cimitero blindato, neppure le forze dell'ordine possono immaginare che quello è l'inizio della fine della faida. Sembra l'esatto contrario.
Lo dimostrano anche quei colpi di mortaio, potentissimi, esplosi uno dopo l'altro proprio durante i funerali. “E' un segnale – ci racconta un investigatore – vogliono farlo sentire in paese, ai Graziano, ma non solo. Che loro sono in piedi, pronti a colpire in ogni momento”.
Quelle esplosioni, quella violenza e quella rabbia espressi in modo così clamoroso, stonano del tutto con le decine di colombe bianche lasciate volare subito dopo. Quasi un messaggio di pace. Ma che accompagna Clarissa Cava e Maria Scibelli in cielo. Non certo rivolto al mondo. Ora, in questo momento, ci sono solo i Cava. I Cava contro tutto il mondo.
Quella faida terribile. Non si sarebbe fermata del tutto. Ma da allora, da quella strage si è lentamente diluita. Grazie anche ai tanti arresti. Ma forse non solo.
Ad alimentare il fuoco dell'odio, che già divampava, era stata il 21 novembre del 1991 un'altra strage, quella di Scisciano, quando un commando dei Cava (dove forse c'era lo stesso Biagio), aveva massacrato in una officina a colpi di kalashnikov Eugenio Graziano, 30 anni, erede designato del clan (e figlio di Luigi Salvatore e Chiara Manzi), il cugino Vincenzo, di 22 anni e il loro guardiaspalle, il 21enne Gaetano Santaniello.
Due stragi in un mare di sangue. Oggi l'odio tace. Molti protagonisti sono dietro le sbarre. Anche i capoclan. E' presto per dire che è finita. Ma certo in quei due estremi si è vissuta una delle storie criminali più violente del Paese.
E quel funerale, contro ogni previsione, ne ha in fondo segnato l'inzio della fine.