di Ciccio Capozzi

“Julieta”. J. , vedova, è ossessionata dall’assenza della figlia, che si è allontanata da lei. In un diario tenta di ricostruire la loro storia, e darsi dei perché. Il regista di questo film (SPA, 16) è il celebrato mancego Pedro Almodòvar, indubbiamente uno dei maestri del cinema europeo. Che, anzi, mi stava molto simpatico, per la sua biografia, la sua scintillante personalità; ma mi è scaduto dal cuore quando ho letto, inaspettatamente, tra i tanti, il suo nome sui Panama Papers. Anche lui, e/o il fratello Agustìn, produttore, la sua eminenza grigia delle finanze, hanno pensato “bene” di alleggerire la loro posizione col fisco spagnolo creando colà delle società farlocche, insieme ai Briatore di turno. Insomma, mediocremente hanno voluto fare i furbi, alla faccia della trasgressione, dell’anticonformismo, della trasparenza intellettuale, ecc. Valori spesso decantati nel cinema di Pedro: ma bellamente negati ‘nfacc’e’ sòrd’… Ma il peggio è che ha detto, ancora più mediocremente, che ciò (ovviamente) “l’ha fatto molto soffrire”, ed è avvenuto “a sua insaputa”: kist’ n’è n’ato… Però, pasolinianamente, evitiamo il moralismo del tenere il ditino alzato contro di lui, sovrapponendo all’analisi del testo, quella del suo comportamento. Anche perché il film mi è piaciuto. Nonostante che buona parte (non tutta) della critica ufficiale presente a Cannes gli abbia dato il pollice verso, affermando che siamo alla “maniera”: cioè Almodòvar ripete sé stesso. Il film è tratto da tre racconti brevi di Alice Munro, e si sarebbe dovuto intitolare “Silencio”, ma il copyright del titolo è attualmente di Scorsese. Avrebbe dovuto essere ambientato in Canada, nazione della scrittrice premio Nobel, ma il mediterraneo e caliente Pedro non se l’è sentita di abbandonare per così lungo tempo la sua amata Madrid. E allora ecco questa doppia location: nella capitale, fredda e schematica nelle sue linee visuali, dove si aggira Julieta come una zombie, priva della linfa vitale dell’affetto e della presenza, prima del marito, poi della figlia; e nella tempestosa, iridescente e variabile Galizia, terra di mare, per la sua precedente, passionale storia col marito. E’ un regista, e sceneggiatore, qui, molto - anzi direi: assai - controllato, ormai lontano, come lui stesso ha affermato, “dalle commedie esuberanti che giravo (prima) (…). Invecchio e con l’età privilegio l’interiorità”. Difatti, il grottesco spiazzante e alogico paradossale dai risvolti comici, che spesso si accompagnavano al mélo più accesso e vibrante, vera e propria cifra almodovariana, qui sono del tutto assenti. Forse ciò ha spiazzato i tanti estimatori del regista. Questo è un film estremamente coerente e unitario, tutto concentrato sul silenzio e sull’assenza: c’è la frase chiave che Julieta scrive sul diario dedicato a lei: “La tua assenza mi riempie totalmente e mi distrugge”. Ma è un ossimoro la cui concretezza esistenziale percorre tutto il film: inizia con Julieta matura che, negli anni, ha cercato di riempire quel vuoto. Ma un piccolo incontro casuale, con l’amica Bea della figlia Antìa, la risospinge su quella china. Decide di ritornare all’appartamento con cui ha vissuto con la figlia in Madrid, e lì riedificare il tempio della sua solitudine a cospetto della figlia mancante. La memoria va al primo incontro con un tizio nel treno, per fuggire al quale conosce il suo futuro amante: ma quello sconosciuto che aveva evitato, si suicida. Da qui il primo complesso di colpa; ma anche la furiosa passione con cui concupisce il suo uomo: non poteva esservi evidenza e parallelismo più lampante del rapporto di amore/morte. Del resto la primissima sequenza dei titoli di testa, è su un disegno fortemente, ma ambiguamente erotico, che si rivelerà essere le pieghe della sua sottile vestaglia rosso sangue: addirittura questo spunto è da Ingmar Bergman. La morte in mare del marito avviene sulla base ipotetica di un piccolo dissidio tra i due: da qui altre colpe. Ma queste investono anche la figlia, come le sarà precisato in informative successive, centellinate a onde nel tempo, con sadica precisione. Ma che la rendono ancora più impotente. In questo vi sono, come al solito nel regista, citazioni colte e incrociate: Truffaut (“La Camera Verde”) e l’atmosfera e le pause che attraversano diversi film di Hitchcock. C’è anche la letteratura ottocentesca del caso e del destino. Ma sono tutte fonti che il regista, con la classe e la forza autorale che lo contraddistingue, ha compiutamente cannibalizzato e digerito. Almodòvar è un autore onnivoro: nel suo genere e ispirazione, un po' alla Tarantino. E qui è tutto e solo concentrato sul dramma delle due Juliete, la giovane e la matura. Non dà respiro a queste ossessioni, né spazio ad altre considerazioni: cui fanno sponda condizionamenti psicologici, a limite della circonvenzione, operati da alcuni soggetti religiosi, accennati nel film, molto forti in Spagna, ai danni della giovane. E’ un’assenza parlante e pensante. Il film è tutto basato su questa. Julieta giovane è la fresca, ingenua “Zazie” che va verso il mondo, l’attrice Adriana Ugarte, al suo esordio in una grande produzione, bella, affascinante e decisa a vivere le sue passioni senza remore, costruirvi sopra il suo mondo. Julieta matura è un’altra attrice, Emma Suàrez, già conosciuta, molto brava e intensa. Il regista ha difeso tale scelta non solo citando Bunuel, che ha già adottato questo sdoppiamento, ma volendo mettere in evidenza la potenza trasformatrice del dolore e degli sconvolgimenti cui era stata sottoposta la donna. Tuttavia Julieta, per quanto sofferente, non ha né la generosità né la pietà che le chiede suo padre, sia quando accudiva la moglie malata che dopo da vedovo, nel perdonare le sue debolezze e accogliere l’amore per la giovane sposa e i figli che ne sono venuti: ed è questa sordità all’accettazione e alla comprensione della misericordia verso gli altri, la base e il tramite dell’oscura insensibilità verso se stessi. Questa complessità di rappresentazione è sviluppata dal regista con cura. Come al solito, la sua scrittura è precisa, le sue note sui personaggi e il loro fare, sono varie e complesse; ma tutte riportate ad un rigoroso senso unitario in tutte le componenti del film. Cito, ad esempio, gli interni delle tre case dove si sviluppano maggiormente i fatti: quella sul mare, la prima casa di Madrid, in cui ritorna, e la seconda casa, quella della dimenticanza. Tre ambientazioni, curate dal bravo scenografo habitué di Alm., Antxòn Gomez , che suggeriscono e diversificano stati d’animo e di vita, col semplice uso di differenti colori e linee predominanti.