Benevento

Ci si alzava dalla tavola imbandita quasi con timore, per raggiungere l’amica dall’altra parte della tavolata, oppure per fumare, o semplicemente per sgranchirsi le gambe, ritornando subito al proprio posto e chiedendo scusa, quasi come se l’allontanamento potesse ledere la sensibilità dei commensali. Ma le abitudini cambiano. E arriva il “selfie”. Onde di umani che a gruppi, rumorosamente e con goliardia, lasciano tavoli, divani e sedie per correre a “spararsi” un selfie in faccia… o dove capita. Il fenomeno degli autoscatti fatti con smartphone, tablet, webcam e condivisi sui social network è sezionato, dibattuto, analizzato e discusso con continuità da almeno un anno, da quando l’Oxford dictionary ha inserito il termine “selfie” tra le sue voci. Ma ora che anche lo Zingarelli ha annunciato, con il suo solito italico ritardo, di avere inserito la “parola dell’anno” nella nuova edizione del vocabolario, c’è la scusa per parlarne di più anche in Italia. Quello che per i più superficiali è solo un fenomeno passeggero e narcisistico, viene sviscerato sia da eminenti psicologi che da uomini comuni. C’è a chi dà enormemente fastidio essere “immortalato” e “dispensato” nel web, a volte anche inconsapevolmente, e chi non ne può fare a meno. Certo è che si è alla ricerca di una ragione per spiegare l’impulso che fa afferrare uno smartphone, anche nelle situazioni più improbabili ed imbarazzanti, puntarlo verso la propria faccia e toccarlo per fotografare noi stessi, in un dato luogo e in un preciso istante. Spesso, compulsivamente, in un’azione più forte di noi, raramente studiata, ci si fotografa in bagno, a letto appena svegli, o prima di dormire, alle feste, allo stadio, nelle sale d’attesa, con le amiche e anche mentre si fa sesso. C’è chi si fotografa ai funerali con la faccia triste o annoiata, chi mette in bella mostra tavola imbandite, lusso e amicizie importanti. Scatti beffardamente felici, lapidi digitali. Il “selfie” normalmente è legato agli stati d’animo, una boa emotiva. Ha a che fare con il senso di comunicazione e con l’architettura relazionale della rete, è parte della biografia visiva che si vuole raccontare, è un’àncora, un urlo personale, che permette una relazione di un momento in un mondo di solitudine. Quello che emerge è la compulsività umana a raccogliere sempre più consensi e affermare il proprio senso di potere e di rappresentazione. Per molti è bello farsi un selfie; è intuitivamente normale farselo, come lo è l’sms. Far circolare un’idea di sé, serve a dire: non mi sentite, ma ci sono! Pare esistano due tipi di selfie, quello esistenziale: ergo sum (io sono) e quello celebrativo: ergo “appaio” (io appaio). Discutibilissimi entrambi. Dietro tutto questo c’è sempre la voglia di un rapporto. La coscienza che da soli staremmo male e abbiamo bisogno degli “ altri” per significare. Per questo i selfie stanno divenendo di gruppo: Io ci sono, e sono in rapporto con altre persone. Di certo, siamo in una fase di cambiamento della percezione del concetto di privacy che è, comunque, cambiata spesso nel tempo; basti pensare al re Sole, che espletava i suoi bisogni fisiologici in pubblico, oppure alle case medioevali che non avevano corridoio o, per contro, al periodo fascista, quando la riservatezza era un obbligo. Azzarderei ad una involuzione, affermando che dal diritto di essere lasciati soli, si è passati a quello della condivisione di tutto, come nelle civiltà arcaiche. Sicché un po’ di neve nel Sannio diviene protagonista di migliaia di selfie a lei dedicata, come fosse non un fenomeno naturale, ma qualcosa che “deve” passare alla Storia e su cui discutere, uno spunto di comunicazione, un pretesto di condivisione o polemica. Un comportamento autentico? Trovo difficile esprimere un giudizio etico sulla mancanza di autenticità nella realtà iper-mediatizzata in cui viviamo. Ma a guardare bene, nelle miriadi di facce e pose, assorbite dalla realtà e restituite al web, ritrovo il riflesso di modelli estetici imposti, in uno stato di stile e pose proposte dalla tv, dalla pubblicità e dalle industrie più trendy. Osservo facce di tutti i giorni: bianche, nere, grasse, magre, brutte, belle, sconce… un universo umano, normalmente escluso dalla rappresentazione visiva di massa che, inconsapevole dei rischi, rivendica un proprio spazio mediatico, convalescente o malato. Ci si sente come se si fosse su un set fotografico da regista e protagonista, con l’incognita di quel che sarà il risultato finale. Ogni scatto una “petit mort”, la morte di un istante irripetibile dell’esistenza. E’ il cortometraggio di un’anima che traspare dal corpo, una conversazione muta e quindi più libera, nella dimensione moderna della sociologia. Il nostro cervello è programmato per reagire alla vista di un volto umano, la più antica interfaccia della comunicazione, in “dipendenza” dalla volontà di inserire se stessi in un racconto, di dare un volto alle storie, di costruire e governare la propria immagine e, con essa, percepire ancor di più la propria personalità. Dimmi chi sono! Cosa ne pensi? Ti piaccio? L’arte folk dell’era digitale: l’autoritratto che si è convertito da forma artistica minoritaria a pratica generalizzata, grazie all’invenzione delle macchine digitali. Il nocciolo risiede anche nell’immagine che si vuole dare di sé e che il selfie può “aggiustare”. Bisognerebbe limitare i danni, lavorare su se stessi per imparare a non eccedere, per fornire un’immagine il più sincera possibile di noi. C’è una grammatica del “sé” da approfondire e da raffinare. Un “sé” senza maschere e pieno di rughe… se necessario! 

Maria Pia Selvaggio