Napoli

Il 6 ottobre 2019 Mattia Ferraresi scriveva nell'inserto de Il Foglio, Il Pensiero Dominante, da lui stesso ideato e inaugurato solo pochi mesi prima, un pezzo giornalistico dal titolo eloquente: "La regressione del medico da Ippocrate a Greta". Là, prendendo spunto da un editoriale appena scritto dal professore della Facoltà di Medicina della Pennsylvania University, il nefrologo Stanley Goldfarb, criticava aspramente una tendenza sempre più diffusa negli Stati Uniti d'America di trasferire (in una quota crescente) il percorso formativo del medico dai libri di testo e dal letto del paziente alla società civile, con le sue nuove e scottanti problematiche.

La progressiva trasformazione del medico in "scienziato sociale" - opportunamente formato sui cambiamenti climatici (già da alcuni anni parte dei percorsi formativi di studenti e specialisti di alcune facoltà statunitensi e in rapida diffusione), la giustizia sociale, la teoria del gender, l'uso inappropriato delle armi in ambito domestico e così via, secondo il professor Goldfarb, sarebbe alla base del profondo impoverimento delle conoscenze di base e cliniche dei nuovi medici.

"Una nuova ondata di specialisti dell’educazione sta sempre più influenzando la formazione medica" - aggiungeva il medico americano - "e questi sottolineano una ‘giustizia sociale’ che c’entra soltanto marginalmente con la salute”. E, incalzando la stessa facoltà per cui lavorava con argomentazioni aspramente critiche, affermava -  “Questa impostazione è il risultato di una mentalità progressista che disprezza le gerarchie di ogni tipo e l’elitismo sociale associato in particolare alla professione medica” - per concludere senza mezzi termini con - "la politicizzazione della formazione di chi cura ha assunto ormai un carattere sistemico, istituzionale; Ippocrate è affiancato da un esercito di scienziati sociali che propugnano giuramenti di altra natura".

Il risultato di queste e altre mutazioni che non erano (e non sono più) solo professionali ma sono diventate necessariamente anche etico-culturali, è apparso evidente proprio dalla risposta che quel paese d'oltreoceano ha dato alla catastrofica pandemia che da lì a pochi mesi lo avrebbe travolto senza appello. Se credete che la scioccante esperienza della covid-19 abbia insegnato qualcosa alle autorità sanitarie e accademiche di tutto il mondo, sempre più inclini a educare - sulla falsariga delle ostinate scelte formative statunitensi - i propri medici con criteri che col paziente sembrano non avere proprio a che fare, vi invito a leggere quanto scritto (nero su bianco) a un convegno dell'Università Campus BioMedico di Roma nel settembre 2022 a proposito delle "sette caratteristiche che dovrà avere il medico di domani per operare in ospedali, imprese biomedicali, farmaceutiche e nei centri di ricerca: ibridazione dei saperi, per la salute e il benessere del paziente; mentalità aperta, per contribuire alle soluzioni tecnologiche di domani; trasversalità, per il superamento dei tradizionali confini professionali; flessibilità, capacità di operare in ospedale e nelle aziende medtech; 100% medico, in grado di seguire il paziente sul piano clinico e umano; 100% formazione ingegneristica, per gestire meglio diagnosi e terapie con i macchinari; capacità di gestire le problematiche etiche del paziente derivanti dalla presenza delle moderne tecnologie".

E se non siete ancora convinti vi basti riascoltare quanto affermò l'allora rettore di quella facoltà, il professore Raffaele Calabrò, introducendo l'evento suddetto: "Oggi in medicina non parliamo più genericamente di 'patologie' ma abbiamo l’opportunità di conoscere i problemi del singolo malato, e la tecnologia in questo diventa fondamentale. Dobbiamo mettere insieme medici e imprese per creare ricerca e innovazione per il malato e per il progresso del sistema sanitario". È certamente un passo avanti verso il futuro, ma mi è oscuro quanto questo "luminoso domani" convenga davvero al paziente e a chi lo accudisce.