Negli ultimi cinque anni, l’industria europea è stata sottoposta a una pressione senza precedenti: un ambientalismo rigido, sostenuto da normative stringenti, ha imposto una transizione forzata verso un modello produttivo sostenibile, spesso in modo apodittico e senza tener conto della realtà industriale e competitiva globale. Quello che avrebbe dovuto essere un percorso virtuoso di decarbonizzazione si è trasformato in una corsa contro il tempo, con costi elevatissimi per le imprese europee, a fronte di una concorrenza extra-UE più libera e priva di vincoli.

Il Green Deal, bandiera della precedente legislatura europea, ha prodotto un sistema normativo che, se da un lato si è proposto come pioniere della lotta al cambiamento climatico, dall’altro ha gravato pesantemente sui settori chiave dell’industria europea. Oggi, di fronte al crollo di comparti strategici come quello dell’automotive, simbolo dell’identità industriale europea, si avverte con urgenza la necessità di una revisione pragmatica delle politiche adottate. Lo stesso linguaggio istituzionale ha iniziato a mutare: non più “Green Deal”, ma un “Clean Industrial Deal”, un patto industriale pulito che punti a coniugare sostenibilità, crescita economica e competitività.

Il caso emblematico dell’auto europea

La crisi dell’automotive è paradigmatica. L’irrigidimento normativo sui motori endotermici, in prospettiva del loro bando entro il 2035, ha creato uno squilibrio tale da avvantaggiare i produttori cinesi nel comparto elettrico. Questo ha messo in ginocchio colossi storici come Volkswagen e Stellantis, spingendo la Commissione Europea a prendere atto delle conseguenze sociali ed economiche di un percorso imposto con troppa rigidità.

La richiesta di neutralità tecnologica è ormai una necessità, non più una questione ideologica. Incentivi e supporto alle tecnologie alternative, compresi i biocarburanti e i carburanti sintetici, dovranno sostituire le sanzioni per chi è in ritardo sugli obiettivi di decarbonizzazione. Paesi come l’Italia e la Cechia, primi a lanciare l’allarme, hanno aperto la strada a un dibattito più equilibrato. Il tema, oggi, non è più “elettrico sì o no”, ma auto sì o no.

Oneri sproporzionati e concorrenza sleale

L’automotive è solo la punta dell’iceberg. L’intera industria europea si trova oggi a fronteggiare un sistema di regole verdi troppo onerose, spesso non condivise a livello globale. Prodotti provenienti da paesi extra-UE entrano indisturbati nel mercato unico europeo, senza dover rispettare gli stessi standard ambientali e sociali imposti alle aziende europee. Questo crea un dumping normativo che penalizza ingiustamente i produttori del continente.

Direttiva sulla deforestazione: prevista per il 2025 e poi rinviata, impone alle imprese di provare che prodotti come soia, caffè, cacao e legname non provengano da aree deforestate dopo il 2022. Sebbene l’obiettivo sia condivisibile, gli oneri di rendicontazione rischiano di affossare intere filiere.

Direttive CSRD e CS3D: obbligano le imprese a rendicontare annualmente la sostenibilità ambientale, sociale e di governance (ESG). Francia, Italia e Germania hanno già chiesto una revisione per eccesso di oneri burocratici.

Energia e dogma rinnovabile: la scelta tedesca di abbandonare il nucleare ha fatto esplodere i costi energetici in Europa. Ora, paradossalmente, il nucleare sta tornando come soluzione necessaria.

L’industria energivora: un rischio sistemico

A partire dal 2030, il sistema ETS (Emission Trading Scheme) prevede l’eliminazione delle quote gratuite per i settori ad alto consumo energetico, come acciaio, vetro, ceramica e cemento. Questo comporterà un aumento insostenibile dei costi legati alle emissioni di CO2, rischiando di espellere dal mercato interi comparti. A peggiorare la situazione, il meccanismo CBAM (Carbon Border Adjustment Mechanism) rischia di penalizzare ulteriormente l’industria europea, senza garantire la competitività contro i produttori stranieri.

La sostenibilità come equilibrio, non come imposizione

Non è la battaglia climatica a essere messa in discussione, ma la sostenibilità delle politiche adottate. L’Europa, che contribuisce solo per il 7% alle emissioni globali e per il 3,5% con la sua industria, deve evitare il rischio di un autolesionismo economico. Affossare l’industria europea significherebbe fare un favore ai concorrenti globali, senza reali benefici per l’ambiente.

È tempo di un cambio di rotta deciso e pragmatico: il “Clean Industrial Deal” deve porsi come un nuovo patto per una transizione sostenibile, equilibrata e competitiva. La decarbonizzazione deve essere un obiettivo, non un dogma. Solo con il dialogo tra industria, istituzioni e stakeholder si potrà costruire un modello europeo capace di coniugare ambiente e crescita economica, senza sacrificare il futuro produttivo del continente.