Le società democratiche, pur con tutte le loro imperfezioni, offrono spazi di libertà e partecipazione che spesso diamo per scontati. Tuttavia, i regimi autoritari esercitano un fascino perverso. Ammiriamo talvolta la loro apparente stabilità, la capacità di prendere decisioni rapide senza il peso del dissenso o delle complessità istituzionali. Questa illusione di forza, però, si sgretola di fronte ai crolli repentini di figure che sembravano inamovibili. La caduta di Bashar al-Assad ne è un esempio lampante.
Assad, un uomo che ha trasformato la Siria in un teatro di sangue e devastazione, ha incarnato per anni l’archetipo del despota: determinato a mantenere il potere a ogni costo, anche bombardando con armi chimiche la sua stessa popolazione. La sua fuga ignominiosa, avvenuta sotto l’incalzare delle forze ribelli, segna la fine di un’epoca di terrore. Tuttavia, mentre il mondo celebra la caduta di un dittatore, emergono ombre inquietanti.
Sui social network e nei circoli politici, si insinua una contronarrazione: l’Occidente avrebbe favorito la sostituzione di un despota con un regime jihadista. In questa interpretazione, il movimento Hayat Tahrir al-Sham, guidato da Abu Mohammad al-Jolani, viene descritto non solo come un’organizzazione terroristica ma anche come un possibile "male minore". Gli Stati Uniti, sotto l’amministrazione Biden, sembrano aver accolto questa narrativa, vedendo in Jolani un interlocutore più "presentabile", capace di garantire una stabilità locale pur con metodi discutibili.
Le conseguenze geopolitiche della caduta di Assad sono profonde. I tre grandi sostenitori del regime siriano – Russia, Iran e Hezbollah – escono gravemente indeboliti. La Russia, impegnata in Ucraina e con un’economia traballante, non può più permettersi il lusso di sostenere avventure costose all’estero. L’Iran e Hezbollah, già colpiti dalle azioni di Israele, perdono un alleato cruciale nel cuore del Medio Oriente. Questa destabilizzazione colpisce quello che viene definito l’“Asse della Resistenza” (Iran, Hezbollah, Hamas) e l’“Asse del Caos” (Cina, Russia, Iran, Corea del Nord).
Eppure, la fragilità della Siria post-Assad preoccupa. Le promesse di tolleranza e governance del movimento jihadista potrebbero rivelarsi illusorie. Con l’assenza di un’autorità centrale stabile, il paese rischia di diventare un terreno fertile per nuove crisi umanitarie, con ondate di profughi dirette verso l’Europa e un caos difficile da controllare.
Le dinamiche internazionali intorno alla Siria evidenziano il paradosso della politica estera contemporanea: l’abbandono dell’idealismo interventista ha lasciato spazio a una realpolitik più cinica. La decisione di Biden di non immischiarsi direttamente nella guerra civile riflette una consapevolezza nuova, condivisa sorprendentemente anche dall’ex presidente Trump. Entrambi concordano sulla necessità di concentrarsi sugli interessi nazionali, lasciando che la Siria trovi il suo equilibrio, anche a costo di accettare compromessi moralmente discutibili.
In questo scenario, la caduta di Assad non rappresenta la fine di un’era di violenza, ma piuttosto l’inizio di una nuova fase di incertezze. Per le democrazie occidentali, il vero banco di prova sarà riuscire a bilanciare pragmatismo e principi, evitando che il fascino dell’autoritarismo si trasformi in un modello pericoloso e contagioso.